Magic: the Gathering Wiki
Advertisement

The Lost Caverns of Ixalan Episode 3 è un articolo della rubrica Magic Story, scritto da Valerie Valdes e pubblicato sul sito della Wizards of the Coast il 20 ottobre 2023. Racconta parte della storia di Quintorius Kand, Huatli e altri personaggi di Ixalan dopo la fine dell'Invasione di Nuova Phyrexia.

Racconto precedente: The Lost Caverns of Ixalan Episode 2

Storia[]

Wayta[]

Se qualcuno avesse detto a Wayta qualche giorno prima che lei e un archeologo lossodonte sarebbero andati all’inseguimento di un fantasma attraverso delle rovine sotterranee, lei avrebbe consigliato di andare a farsi visitare da un guaritore. E in più, avrebbe chiesto cosa fosse un lossodonte.

Il fantasma, che si era presentato come Abuelo, fluttuava invece di correre, con il suo poncho che ondeggiava in un’invisibile brezza mentre andava a tutta velocità tra gli edifici. Quint gli correva dietro, con la proboscide ripiegata perché non gli desse fastidio, e Wayta lo seguiva, analizzando i dintorni per potenziali pericoli.

Sfortunatamente, essere dietro significava che sarebbe stata l’ultima a vedere ciò che li attendeva dietro un angolo, vicino a un fiume sotterraneo.

“Titano!” gridò Abuelo, poi svanì in un mulinello di energia viola rosata. Wayta si fermò di colpo, rischiando di sbattere contro la schiena di Quint.

Più avanti incombeva una figura possente, sicuramente alta il doppio di lei. Si poteva facilmente scambiare per una parte della crescita di funghi avvenuta sui muri, finché non si mosse. La sua testa era un enorme fungo stratificato, come quelli che crescevano sugli alberi della giungla, mentre le sue spalle e il petto erano ammassi di morchelle dalla testa rotonda. Degli spuntoni seghettati di chitina spuntavano dai dorsi delle sue enormi mani e risalivano fino agli avambracci.

Un basso ronzio discordante, più visto che sentito, fece alzare i peli delle braccia di Wayta. Prima che lei o Quint potessero fare qualsiasi altra cosa, la creatura li caricò.

“Stai indietro” disse Wayta a Quint. Agitò la sua spada per attirare l’attenzione della creatura, dirigendosi verso il fiume rumoroso e lontano da Quint. Tilonalli, punisci i miei nemici, pregò lei.

Il titano afferrò mezza parete in rovina e la scagliò contro Wayta. Lei si mosse con grazia di lato, e l’enorme blocco di pietra la superò con una folata di vento schiantandosi con un tonfo dietro di lei. L’impatto fece volare sassolini e schegge, segnando la sua pelle scoperta e rimbalzando sulla sua armatura.

Con un ruggito, il titano tuonò verso di lei e indietreggiò per colpire. Wayta si abbassò, rotolando sotto la spazzata di un braccio grande quanto il tronco di un albero. Si rimise in ginocchio e tagliò il retro della gamba del mostro, poi si alzò nuovamente in piedi con un saltello. Un umano sarebbe stato fuori gioco, ma il titano non subì alcun effetto. Si voltò e colpì di nuovo, e di nuovo Wayta scivolò tra le sue gambe, saltandogli sulla schiena. Lo tagliuzzò con la sua spada, estraendo un blocco di materiale fibroso senza effetto alcuno. Era come se stesse combattendo contro un albero ahuehuete.

La punta di una lancia trapassò il petto del titano. Huatli, Inti, Caparocti e gli altri guerrieri erano arrivati mentre Wayta stava combattendo, gridando e lanciandosi insieme all’attacco. Circondarono la creatura, la attirarono, la infilzarono e le tranciarono via dei pezzi finché il terreno non fu cosparso di funghi e rivestimento di chitina. I dinosauri da soma erano stati tenuti lontano per la loro sicurezza, ma Pantlaza balzò e sferrò alcuni colpi con gli artigli affilati delle zampe posteriori, lasciando lunghi solchi profondi sul dorso della creatura.

Più a lungo combattevano, più i muscoli di Wayta facevano male per la fatica, con il proprio respiro che bruciava a intermittenza nei polmoni. Nessuno dei suoi colpi rallentava il titano, ed esso non mostrava segni di percepire dolore. Estraeva le lance, afferrava le spade con le sue enormi mani e le lanciava nelle rovine. Le sue ferite trasudavano un fluido nero che creava dei fili viscosi, i quali si intrecciavano tra loro finché non si solidificavano per far crescere nuove escrescenze fungine. Estrasse una lancia dal proprio petto e la scagliò contro uno dei guerrieri. L’arma mancò il suo bersaglio, ma il braccio cosparso di spuntoni del titano le andò addosso come la coda di uno stegosauro e la catapultò all’indietro contro un muro. Si accasciò e rimase stesa, immobile. Altra sostanza nera fuoriusciva dalla bocca della creatura, che venne sputata contro un guerriero vicino, il quale iniziò a urlare quando la sostanza catramosa iniziò a consumare la sua armatura. Wayta corse verso di lui per aiutarlo, ma la vista delle ossa insanguinate sotto ciò che rimaneva della carne dell’uomo le fece capire che era troppo tardi.

Wayta avrebbe pregato gli spiriti dei morti più tardi. In quel momento, doveva combattere.

“Ne arrivano altri!” gridò Quint, indicando la città più interna.

Una decina di nuove creature li circondarono, attraversando il ponte pericolante sul fiume vicino, strisciando per le strade deserte e scavalcando pareti mezze distrutte. Versioni più piccole del titano, costituite da funghi di diverse forme e dimensioni. Alcuni erano armati di armi primitive, probabilmente prese dai molti cadaveri di quel luogo vuoto.

I guerrieri dell’Impero del Sole si ritrovarono in inferiorità numerica e fiancheggiati. Una delle creature disarmate si staccò un fungo dal corpo e lo lanciò ai piedi di un altro guerriero. Il fungo brillò di un inquietante verde, esplodendo in una spessa muffa nera che intrappolò gli stivali dell’uomo e si diffuse sulle sue gambe. Lui inciampò, e la muffa scattò verso la sua bocca.

Il cuore di Wayta si strinse con l’improvvisa certezza che lei sarebbe caduta in quel luogo, senza mai più vedere la luce del Triplice Sole.

Poi, la marea mutò.

Un’onda scattò fuori dal fiume sotterraneo, sbalzando via due delle creature. Un attimo dopo, una mezza dozzina di Araldi del Fiume balzarono sulla costa, unendosi alla battaglia con magia, lance e spade di giada.

“Questa battaglia è persa” disse uno degli Araldi. “Venite con noi per salvarvi.”

Wayta esitò. Dopo ciò che era accaduto a Orazca prima della guerra, le relazioni tra l’Impero del Sole e gli Araldi del Fiume erano state tese, persino ostili. Potevano fidarsi di queste persone?

La fiducia doveva cominciare da qualche parte. Tanto valeva che iniziasse da lì.

Wayta cercò Quint, trovandolo a tessere una magia dietro un muro vicino. Un’antica arma si sollevò dal terreno come se fosse stata brandita da uno spirito e iniziò a roteare in aria fino a conficcarsi nel collo di una creatura fungina.

“Quint, andiamo!” gridò Wayta. Lui obbedì immediatamente, e lei fece sì di liberare un passaggio verso il fiume.

Una degli Araldi li notò e afferrò la mano libera di lei. Bisbigliò un incantesimo, facendo ruotare le dita della mano attorno al volto di lei. Improvvisamente, l’aria aveva un sapore diverso, pieno di umidità. Uno scintillio arcobaleno avvolse Wayta come se fosse stata racchiusa in una bolla modellata secondo la sua forma, poi si punzecchiò un braccio, non percependo nulla di insolito.

“Che il tuo viaggio sia rapido, sorellina” disse la tritona, poi la spinse nel fiume.

Malcolm[]

L’ascensore scese ancora più in profondità nel cenote, con i cavi che cigolavano e i supporti di legno che ondeggiavano. Malcolm osservava con la coda dell’occhio i suoi compagni feriti, sentendo un freddo blocco di terrore allo stomaco. Braghe sembrava star bene, così come quelli che non avevano esplorato la grotta con quei terribili dinosauri, ma gli altri… Non la raccontavano giusta.

I segni neri sulle loro ferite si erano propagati: una delicata filigrana di cerchi e linee su ogni centimetro di pelle scoperta. E il peggio era che avevano iniziato a brillare di una strana tonalità di verde. I pirati non si lamentavano del dolore o della scomodità, quando normalmente starebbero borbottando, chiedendo di riposare. Invece, si alternavano tra un confuso distaccamento e l’attento esame dei loro dintorni con interesse stranamente entusiasta.

Alla luce della sua lampada da spalla, le pareti del cenote scintillavano bagnate, ricoperte di sottili escrescenze fungine che stavano diffondendosi ad un ritmo allarmante. Le caverne non erano mai state completamente asciutte, ma quello era troppo. Man mano che l’odore di marciume e muffa diventava più forte, Malcolm prese un panno dal suo zaino e se lo legò attorno al volto, coprendosi il naso e la bocca. Braghe lo imitò, e Malcolm per poco non si mise a ridere pensando a quanto buffi dovessero sembrare. Più vicini a dei comuni ladri o dei banditi, piuttosto che pirati.

Non che lui fosse stato coinvolto in molta pirateria ultimamente. L’Alleanza di Bronzo lo teneva troppo occupato.

L’ascensore ondeggiò dopo aver colpito qualcosa. Una delle piratesse si sporse oltre il parapetto per controllare.

“Sembra un grosso fungo” disse.

“Riesci a tagliarlo?” chiese Malcolm.

Lei annuì, estraendo la spada. Dopo averlo colpito qualche volta, l’ascensore si spostò. La piratessa starnutì e barcollò all’indietro.

“Che schifo” disse lei. “È esploso come un sacco di farina.” Tossì e si strofinò gli occhi mentre un altro pirata arrivò per darle qualche colpetto sulla schiena.

Dove si trovava lei, una nuvola di verdi spore brillanti si alzò nell’aria immobile, addensandosi come fumo. Malcolm indietreggiò, stringendo gli occhi. Lanciò un’occhiata ai pirati feriti, che rimasero impassibili al centro dell’ascensore, con le loro ferite che brillavano dello stesso colore. C’era una sorta di connessione?

Come per rispondere a quella domanda, quei pirati balzarono verso due dei pirati sani e li spinsero nella nuvola di spore. Gridi sorpresi si trasformarono in tosse grassa, poi in respiri soffocati e conati di vomito, sputando fluido nero sul pavimento.

Veloce com’era iniziato, quel malanno improvviso cessò. I pirati affetti si alzarono a scatti e si rivolsero verso gli altri. I loro occhi erano vitrei e verdi, e delle vene nere si estendevano sui loro volti. L’aria sibilava dalle loro bocche come una camera d’aria bucata. Malcolm estrasse la sua spada e indietreggiò, sistemandosi la bandana che stava ancora coprendo naso e bocca. I pirati sopravvissuti fecero appena in tempo a sfoderare le loro armi prima che i loro alleati infetti attaccassero. Gli stretti confini di quello spazio rendevano quasi impossibile schivare, e ogni fendente o affondo poteva colpire un amico invece del nemico.

“GROSSO BOOM?” chiese Braghe.

“No! Ci ammazzerai tutti” gridò Malcolm.

Lui balzò oltre il parapetto, costretto ad usare la propria magia di volo per mancanza di correnti d’aria. Tornò indietro, formando un cerchio in aria, e si aggrappò alle corde dell’ascensore, che lo tirarono verso l’alto e lontano da lì. Sotto di lui, i pirati combattevano disperatamente, ma proprio come il dinosauro nella caverna, gli infetti sembravano immuni a dolore o ferite.

Braghe raggiunse Malcolm sulle corde mentre l’ascensore continuava a scendere. “FUGA?” gridò Braghe.

Al suono della sua voce, gli infetti alzarono lo sguardo all’unisono con quei loro terribili occhi verdi.

“Taglia le cime” disse Malcolm, col sangue raggelato. “Svelto.”

Braghe afferrò la corda con entrambi i piedi e la coda. Iniziò a tagliare un cavo con il suo coltello, mentre Malcolm recideva l’altro. Le cime erano spesse, pensate per sostenere un peso considerevole, ed erano a meno di metà del taglio quando gli infetti iniziarono ad arrampicarsi sul lato dell’ascensore.

Nonostante i muscoli di Malcolm stessero bruciando, iniziò a tagliare più velocemente. Il cavo tra le sue mani si sfilò, assottigliandosi, poi si spezzò con una forza tale da sbalzarlo indietro. L’ascensore ondeggiò, facendo barcollare i pirati infetti al suo interno. Braghe resistette con fatica quando la sua cima schioccò e, con un silenzio terribile, l’ascensore cadde giù nell’oscurità.

Chiudendo gli occhi, Malcolm cercò di calmare le ali di colibrì che sentiva nel proprio cuore. “Forza” disse infine. “Non possiamo stare qui.”

Alternò il volo all’arrampicata, con Braghe che stava al passo aggrappandosi alle corde. Evitò con meticolosità un viticcio di fungo sulla parete vicina, rabbrividendo quando si accorse che un fungo dall’inquietante forma oculare sembrava stesse seguendo i loro movimenti. Prima di quel giorno, Malcolm avrebbe creduto che fosse uno scherzo della sua immaginazione.

Ma in quel momento si stava chiedendo quale terribile creatura fosse in grado di trasformare pirati e dinosauri in marionette senza volontà… e perché lo stesse facendo.

Bartolomé[]

Per quanto potesse essere spiacevole una cascata di roccia fusa fiammeggiante, diverse fuoriuscite simili e persino fiumi della stessa sostanza erano infinitamente peggio. Se il percorso per arrivare ad Aclazotz continuava attraverso un terreno così inospitale e letale, Bartolomé si chiese se, nonostante ciò che affermasse Vitor, un dio tanto potente come il loro fosse effettivamente destinato ad essere trovato.

Le creature simili a goblin che avevano inseguito lo strano nuovo arrivato, Kellan, non ricomparvero. Ma nonostante ciò, più il loro pellegrinaggio li portava in profondità nel sottosuolo, più i segni che rivelavano fosse abitato aumentavano: edifici scolpiti sui fianchi delle rupi e sulle stalattiti, monumenti lucenti ricoperti di glifi sconosciuti, giardini di pallide piante senza foglie nel terreno sabbioso. Non avevano mai incontrato nessun residente, ma dei suoni affrettati e barlumi di movimento suggerivano che non fossero soli.

Amalia conversava con Kellan, che esaminava i suoi dintorni con meraviglia e disagio. Bartolomé vedeva la propria figlia nella giovane cartografa, ancora così innocente nonostante le privazioni della recente invasione. Per proteggere quell’innocenza, per garantire un futuro a chi era come lei, lui avrebbe compiuto qualsiasi sacrificio fosse stato necessario.

Fino a quel momento, era significato assecondare gli ordini di Vitor. Quando la Regina Miralda scelse Bartolomé per unirsi a quella spedizione, gli era stato detto di stare al gioco e di scoprire le vere intenzioni e la vera lealtà di Vitor. Non aveva considerato quanto fossero diventate eretiche le idee del gerofante, quanto in là si fosse allontanato dalla chiesa. Non era nemmeno riuscito a scoprire chi avesse dato a Vitor la lancia e il diario del Venerabile Tarrian, ma ciò suggeriva che l’opposizione alla regina, la fazione che appoggiava Vona de Iedo ed altri cosiddetti profeti, era più grande e più unita di quanto avessero sperato.

E se Aclazotz stesso si fosse allineato all’Antifex? Bartolomé rabbrividì al solo pensiero.

La Legione raggiunse un altopiano più grande e più piatto che si affacciava su una coppia di cascate di lava. Nel giro di un attimo, il silenzio lasciò spazio a grida e allo sferragliare del movimento. I soldati di Clavileño circondarono gli altri per proteggerli, con le armi estratte.

Due decine di guerrieri li circondarono, più alti dei vampiri, più grossi, con volti simili a quelli di grandi felini e un pelo a macchie simile. Indossavano elmi e armature dalle complesse decorazioni e brandivano archi, spade e armi con asta di ossidiana dal minaccioso aspetto seghettato. Le zanne scoperte promettevano violenza, e Bartolomé non voleva mettere alla prova la loro abilità con le armi. Erano in superiorità numerica, a meno di contare anche i facchini e i prigionieri della Legione.

“Voi verrete con noi” disse una delle persone-felino, roteando un’arma lunga ricoperta di glifi.

“Chi siete?” chiese Vitor, con una voce fredda di autorità.

“Io sono Kutzil, campionessa dei Malamet” fu la risposta. “Voi verrete con noi, o morirete.”

Bartolomé si schiarì la gola. “Noi stiamo compiendo un pellegrinaggio sacro” disse. “Cerchiamo soltanto un passaggio sicuro attraverso queste terre. Non intendiamo farvi alcun male.”

L’occhiataccia di Vitor suggeriva che non fosse d’accordo con l’intrusione di Bartolomé o con le sue menzogne.

Kutzil spostò il suo sguardo, inclinando la testa. “La vostra missione non è un nostro problema. Il Sovrano Okinec Ahau deciderà la vostra sorte.”

Clavileño guardò Vitor. “Ordini?”

“Abbiamo già combattuto troppo” disse sottovoce Bartolomé a Vitor. “Il morale e le provviste scarseggiano. La diplomazia potrebbe aiutare maggiormente la nostra causa rispetto a farci dei nemici.”

Vitor spostò nuovamente la sua attenzione su Kutzil. “Incontrerò il vostro sovrano” disse lui. “Guidateci.”

I guerrieri Malamet tennero le loro armi puntate sulla Legione. Con la sua arma ad asta, Kutzil fece loro cenno di seguirla.

Vitor si sporse vicino a Bartolomé. “Non sminuire mai più la mia autorità” disse a bassa voce, con tono minaccioso.

Bartolomé inclinò la testa per indicare che aveva compreso.

Seguirono Kutzil attraverso altri ponti di pietra, sempre più all’interno di una città abitata da quel popolo, i Malamet. Non appena risultarono sotto scorta, gli abitanti di quelle dimore si fecero vedere, insieme ad alcuni di quegli strani goblin pallidi. Bartolomé si meravigliò del fatto che esistesse un’intera cultura all’interno di quelle caverne e tunnel, e che non avesse mai viaggiato verso la superficie per avere un qualche tipo di contatto.

Forse aver sbloccato le porte come avevano fatto avrebbe portato a qualcosa di fruttuoso. O magari no, vista la diffidenza di quel popolo.

Kutzil fece fermare la compagnia. “Ammirate” disse lei. “Voi siete i primi estranei a vedere Ban Koj dai tempi degli Oltec.”

Bartolomé fece un passo indietro, portandosi una mano alla bocca dalla meraviglia. Le poche capanne che il loro gruppo aveva oltrepassato nelle ore precedenti erano nulla in confronto a quella vista. Una città intera, probabilmente delle dimensioni di Alta Torrezon, era stata costruita in un blocco di stalattiti così grande che sarebbe potuto essere una catena montuosa sottosopra. Alcuni edifici sembravano intagliati direttamente nella roccia grezza, mentre altri avevano delle pareti dipinte di bianco simile a porcellana. Tra gli edifici si estendevano ponti di corda e reti, oltre che spessi cavi sui quali erano appesi degli strani carri, con le ruote sopra di essi che permettevano loro di muoversi avanti e indietro. All’interno viaggiavano dei passeggeri, che uscivano per unirsi ad altri Malamet mentre camminavano lungo le inquietanti strade sospese.

Bartolomé nascose la sua nervosità dietro una placida maschera esterna mentre i felinidi dividevano la Legione in due gruppi per trasportarli verso la città superiore. Fuggire da quel luogo sarebbe stato quasi impossibile se la diplomazia avesse fallito. Alcuni dei soldati riuscivano a volare, essendo aerofanti, ma tutti gli altri… Il suo sguardo si spostò su Amalia, che era in piedi vicino a Kellan. Gli scatti delle sue dita vicino alla spada mostravano la sua ansia.

I guerrieri Malamet continuarono a far loro la guardia mentre marciavano lungo un largo ponte di pietra che portava alla stalattite più grande. A differenza delle altre, quella non aveva alcun edificio scavato all’esterno, e nemmeno finestre. Invece, centinaia di enormi glifi coprivano ogni superficie visibile, brillando a intermittenza.

Oltrepassarono un’immensa apertura alla fine del ponte con una porta rotante al centro. Altre guardie armate si misero sull’attenti mentre passavano, silenziose come gli astuti predatori a cui assomigliavano. Uno dei facchini della Legione sbandò un po’ troppo vicino e la guardia più vicina si mise a ringhiare.

L’interno della stalattite era riempito da un’enorme piramide scavata nella roccia, con centinaia di scalini che conducevano ad una piccola stanza sulla sua sommità. Uno strano mormorio riecheggiava nello spazio cavernoso, ma la fonte sembrava invisibile.

Fortunatamente, non furono costretti a salire per la scalinata, e vennero invece condotti dentro la piramide in una lunga stanza fiancheggiata da colonne intagliate, tra le quali si trovavano dei Malamet accovacciati su tappeti intrecciati. I loro complessi copricapi e collari suggerivano una qualche forma di nobiltà o sacerdozio, e tutti fissarono i membri della Legione mentre passavano, alcuni mostrando le proprie zanne, che facevano sembrare i denti vampirici innocui a confronto.

Seduto su un trono posto su una piattaforma rialzata in fondo alla stanza, un grosso Malamet in armatura giocherellava con un’enorme spada seghettata. Quello, probabilmente, era il Sovrano Okinec Ahau.

“Cosa ci hai portato, Kutzil?” chiese.

Kutzil alzò il mento con deferenza quando iniziò a parlare. “Invasori dalla superficie, Sovrano” rispose.

“Siamo solo di passaggio” disse Vitor, inchinandosi cordialmente.

“Parlerai quando ti verrà rivolta la parola” ringhiò Kutzil, puntando la sua arma verso Vitor. Con un sogghigno, Vitor la ignorò.

Il Sovrano Okinec Ahau osservò Vitor con curiosità. “Qual è il vostro obiettivo nel mio reame?”

“Siamo pellegrini” rispose Vitor. “Siamo in viaggio verso la terra di Aclazotz, il nostro dio.”

“Qui non esistono dei all’infuori di me” disse Okinec Ahau, stringendo la propria spada. “Poq” disse, alzando lo sguardo verso un gruppo di consiglieri vestiti di tuniche alla sua destra. Un massiccio Malamet dal pelo fulvo si fece avanti, con le braccia incrociate dietro la schiena. Vestiva una semplice bardatura d’argento, riccamente incisa di glifi e pittogrammi. Le ciocche dei suoi capelli sciolti erano appesantite da piccoli medaglioni d’argento lucenti legati sulle punte.

“Poq è il mio Tessitore di miti” disse Okinec Ahau, presentando il Malamet. “Parlerà lui. Con le nostre parole, vedrà ciò che si cela dietro le vostre.”

Poq annuì. Alzò le braccia davanti al petto e fece uscire una breve, bassa parola. L’odore della pioggia, del possente fulmine e del calore di un secco giorno d’estate riempì l’aria. Tra i suoi artigli apparve una vorticante foschia verde, che si unì fino a formare delle forme che si aggregavano l’un l’altra, rivelando un’immagine offuscata, ma distinguibile:

Un volto sorridente, con le sue zanne esposte e che continuavano a crescere. Il volto si girò di scatto, vibrando, quando notò i Malamet attorno ad esso. Con uno stridio, scattò in avanti, mordendo Poq, il Tessitore di miti, come una bestia che cerca di addentare del cibo.

Il Tessitore di miti Poq abbassò le proprie mani, facendo sparire l’immagine. Guardò Okinec Ahau, scosse la testa, poi tornò camminando al proprio posto tra i consiglieri riuniti.

Okinec Ahau si alzò e si rivolse ai Malamet riuniti, parlando con tono più alto rispetto ai soldati della Legione, “Un’invasione ne genera un’altra” disse Okinec Ahau. “Non permetteremo che accada.”

I soldati della Legione si misero in posa difensiva. Bartolomé appoggiò una mano sul braccio di Amalia, e si scambiarono uno sguardo preoccupato.

Il Sovrano Okinec Ahau fece un cenno alle figure sedute. “Io condanno questi invasori ad essere consegnati alla sabbia. Che venga fatta la mia giustizia.”

Alcuni dei vampiri estrassero le spade, e Vitor mirò al sovrano con la propria lancia. Prima che potessero attaccare o difendersi, tuttavia, i Malamet che li avevano fiancheggiati ruggirono e alzarono le loro armi.

“Non è giusto!” gridò Kellan dalle retrovie del gruppo. “Non abbiamo fatto niente!”

Il Sovrano Okinec Ahau mostrò le zanne. “Il fuoco non si preoccupa di essere giusto. Si limita a bruciare.”

Uno per uno, i guerrieri trasportarono la Legione verso una grande fontana, con una testa di giaguaro in cima. Solo che invece dell’acqua, sgorgava della sabbia da quella bocca intagliata, accumulandosi sotto e finendo risucchiata dentro una grande cavità. Vitor fu il primo del loro gruppo a raggiungere la struttura, con gli occhi infuocati di collera.

“Nonostante sia circondato di nemici” intonò Vitor, “il mio dio mi garantirà forza e vendetta. Sarà fatta la sua volontà.”

Bartolomé osservò i Malamet lanciare i suoi compagni nella vasca di sabbia: alcuni si sottomisero in silenzio, mentre altri gridavano o lottavano. Vitor vi entrò di testa, con la lancia ancora bloccata su di lui dalle catene magiche che lo tenevano legato. Lo seguì Clavileño, che sibilava e mostrava le zanne. Amalia era immobile e stranamente calma mentre affondava; prima le sue gambe, dopodiché le sue braccia sparirono sotto la superficie. Stava bisbigliando tra sé e sé, ma lui non riuscì a leggerle le labbra, inoltre aveva gli occhi spalancati, ma ignari di ciò che vedevano. Kellan, di fronte a lei, si dimenava e colpiva la sabbia, mostrando chiari segni di panico sul viso man mano che scivolava sempre più vicino al grande scarico.

Appena prima che Amalia sparisse, lei disse a Kellan: “Trattieni il fiato”.

Le era stato fatto dono di una visione? Bartolomé lo sperava, poiché altrimenti la loro missione sarebbe giunta al termine, e la colpa era sua. Seguì l’esempio di Amalia e lasciò che i Malamet lo sollevassero con le loro grosse braccia dal pelo ruvido, combattendo la propria paura mentre veniva lanciato brutalmente nella vasca della fontana. La sua unica consolazione mentre le sabbie lo reclamavano fu che Vitor non avrebbe più avuto occasione di compiere altre nefandezze a Torrezon. Desiderava solo che quell’obiettivo non avesse dovuto richiedere un costo così alto.

Wayta[]

Wayta ruzzolò attraverso la fredda oscurità del fiume. Una corrente sorprendentemente veloce la spinse in avanti, e la luce del Triplice Sole fissata sulla sua cintura iniziò a proiettare ombre impossibili attorno a lei. Si rese conto che poteva respirare, sicuramente grazie all’incantesimo che aveva lanciato la tritona. Nonostante ciò, non aveva molto controllo su dove fosse diretta, e poteva solo fare del suo meglio per non venire sbattuta contro le pareti o il fondale del fiume.

A volte riusciva ad intravedere una grotta più grande sopra di lei, o il terreno sottostante che si apriva come fosse un lago o un cenote. Altre volte notava con la coda dell’occhio dei lampi di verde lucente, o magari il tunnel si diramava, dando uno scorcio di un qualche percorso alternativo irraggiungibile.

Attraverso tutto quello, la corrente la trasportava verso la sua destinazione sconosciuta. Infine, dopo un’eternità, in lontananza apparve una nuova luce.

Con un breve aumento di pressione, emerse in acque aperte, fredde e trasparenti. Wayta scalciò per raggiungere la superficie, cercando gli altri e trovandone alcuni che stavano già nuotando verso la riva più vicina, compresa l’esploratrice che l’aveva spinta in acqua. Nelle vicinanze si trovavano delle guardie tritone, con le pinne increspate come se stessero ondeggiando sul posto, e che la osservavano avvicinarsi senza però fare nulla né per aiutarla né per ostacolarla. In poco tempo, cadde di peso sulla terraferma, felice di vedere Quint di fianco a lei e già seduto ad ammirare i dintorni con palese stupore.

Un’enorme città di pietra sorgeva da un oceano sotterraneo… di acqua dolce, non salata… e si estendeva ancora di più nelle profondità, con un’architettura a scalini che ricordava quella dei templi dedicati al Triplice Sole. Lampade luminose bruciavano in cima ai bassi edifici, mentre lunghe corde di gingilli bioluminescenti e cesti pieni di lucciole illuminavano le strade e i viali in vista. Ovunque posasse lo sguardo, degli Araldi del Fiume camminavano, nuotavano o riposavano, osservando sospettosamente i nuovi arrivati e parlando tra loro.

Wayta si strizzò i vestiti, studiando la zona. “Qui devono esserci migliaia di Araldi” disse, sussultando quando Pantlaza iniziò a scuotersi, lanciando acqua dappertutto.

La giovane esploratrice tritona allargò le branchie. “Mia madre dice che è il più grande assembramento di bande di tritoni che Ixalan abbia mai visto.” Porse una mano a Wayta, che la accettò e si mise in piedi. “Io sono Nicanzil” disse lei. “Siate i benvenuti.”

Huatli aggrottò la fronte. “Perché vi trovate qui, se posso chiedere?”

“Attendiamo l’apertura dell’ultimo portale verso la sorgente” disse Nicanzil, indicando la porta corrosa in cima alla scalinata del tempio. “Mia madre, la Grande Plasmatrice Pashona, potrà dirvi di più. Trovò lei questo luogo dopo la morte dell’Albero Fondalinfa.”

Huatli fissò la porta, stringendo gli occhi come se volesse vederla meglio da quella distanza. “Possibile che questa sia Matzalantli?” mormorò. “Abbiamo veramente scoperto la porta che conduce al luogo di nascita dell’umanità, la dimora degli dei, come afferma la poesia?”

“Se lo fosse” disse Quint, “mi chiedo cos’altro hanno trovato qui. L’Impero delle Monete è arrivato fin qui o rimasero più vicini alla superficie? E immagina quali artefatti storicamente rilevanti potrebbero nascondersi in qualche antica credenza.” Lui controllò i sigilli sulle sue pergamene, apparentemente soddisfatto che tutto fosse intatto.

Wayta lo guardò con curiosità e leggera agitazione. “Cosa faresti con gli artefatti se li trovassi?”

“Mi piacerebbe stabilire un sito di scavo fatto come si deve” disse lui. “Per essere sicuri che tutto venga maneggiato con la massima cura possibile.”

“E poi?” chiese Wayta. “Dissotterri tutto per lasciarlo lì?”

“Non necessariamente” disse Quint. “Suppongo dipenda da cosa vogliate farne tutti voi. Magari volete tenere tutto qui, o riportare qualcosa a Orazca, magari istituire persino un museo.”

“Quindi, la gente verrebbe qui per… dare un’occhiata agli oggetti?” Wayta fece una smorfia. “Che strano.”

Quint rise. “Effettivamente potrebbe suonare strano. È un modo per assicurarsi che le storie del passato non vengano dimenticate.”

“Ah, come la poetessa guerriera” disse Wayta, spostando lo sguardo su Huatli.

“Sì, esatto!” esclamò Quint. “Prenderei appunti durante gli scavi, poi scriverei un rapporto dettagliato per i miei colleghi su Arcavios, così da condividere le mie scoperte.” Il suo sguardo si fece più distaccato. “Forse potrei pubblicarlo in tutto il Multiverso, in qualche modo…”

L’espressione preoccupata di Wayta si fece più forte. “Ma non è la tua storia.”

Le orecchie di Quint si allargarono leggermente. “Bè, no, sarei solamente colui che la racconta.”

“E perché proprio tu?” insistette Wayta. “Tu non sei di Ixalan. Non fai parte dell’Impero del Sole, o degli Araldi del Fiume. Non dovresti raccontare le nostre storie al posto nostro.”

“Allora magari non le racconterò” disse Quint, guardando lontano, oltre l’acqua. “Le registrerò. Le disseminerò. Sono stato addestrato proprio per fare questo, sai?” Aggiunse, con un pizzico di collera. “Non calpesterò tutta la vostra storia.” Si tolse gli occhialoni dalla testa con la proboscide e iniziò a pulirli con un panno. Wayta sbuffò per respirare, chiedendosi perché le importasse così tanto. Perché quell’aspetto la preoccupasse. Certo, un tempo sognava di seguire l’esempio di Huatli e guadagnarsi il titolo di poetessa guerriera un giorno. Ma la guerra aveva infranto quei sogni come le ceramiche che avevano trovato in quelle caverne. Era stata una soldatessa, e una piratessa, a volte aiutando l’Alleanza di Bronzo a rubare e rivendere non solo artefatti da Torrezon ma anche dal proprio popolo. Quei furti le avevano pagato il trasporto e l’avevano nutrita, non dandole mai particolare fastidio, se non una rara fitta di senso di colpa. Si era meritata più di quanto aveva ottenuto dall’esercito, giusto? Ma si era lasciata tutto alle spalle. Ed ora era… che cosa? Un’esploratrice? Avrebbe potuto essere anche una collezionista di storie? Quelle riguardo la sua terra e il suo popolo?

Huatli, che si era seduta in silenzio lì vicino mentre proseguiva la conversazione, offrì a Wayta un leggero sorriso. “Non tutti comprendono il potere delle parole” disse lei. “Il controllo che può dare agli altri.” Iniziò a recitare parte di una poesia che Wayta non riconobbe.

Quando le mie ossa dormiranno nella terra, Chi condividerà i ricordi di me? Gli amici possono erigere monumenti mentre i nemici profanano la mia tomba. Quando anche loro saranno passati oltre cosa ricorderanno i loro figli?

“È triste pensare a quanto viene perduto” mormorò Wayta, alzando lo sguardo verso la strana porta in cima alla piramide in lontananza.

Huatli strinse la spalla di Wayta in maniera amichevole. “Eppure, che gioia quando qualcosa di perduto viene ritrovato, e quando ciò che si è ritrovato viene condiviso.”

Wayta diede uno sguardo a Quint, poi a Inti e a Caparocti, che stavano organizzando gli altri soldati e impartendo ordini non verbali. Forse era meglio che alcune cose rimanessero sepolte, in base a cosa volessero farci le persone. Forse alcuni monumenti meritavano di essere abbattuti.

Lei sperava che qualunque cosa ci fosse oltre quella misteriosa porta dorata verso la cosiddetta dimora degli dei fosse una benedizione, non una maledizione.

Malcolm[]

Il tunnel dove Malcolm e Braghe si erano appostati per recuperare un po’ di fiato aveva un odore secco ed era in disuso, probabilmente abbandonato dopo che le vene si erano esaurite, o perché non era stato trovato nulla che valesse la pena esplorare ulteriormente. Lui e i creatori del tunnel avevano quello in comune: lui non aveva alcuna intenzione di scavare più in profondità. I suoi muscoli erano doloranti e la testa gli scoppiava per l’eccessivo utilizzo di magia.

Il mistero delle sparizioni di massa di Città di Sotto era quasi certamente correlato a tutta quella muffa e quei funghi. Non aveva capito appieno come funzionasse, ma aveva visto abbastanza di ciò che poteva fare da averne paura. I loro rifornimenti erano sul fondo della cavità degli ascensori, e delle otto persone che si era portato lì giù con lui, solo lui e Braghe erano sopravvissuti.

“Tutti morti, niente oro” mormorò Braghe, tristemente.

“Verissimo” concordò Malcolm.

Avrebbero dovuto continuare o sarebbero dovuti tornare indietro? Se se ne fossero andati, Malcolm avrebbe dovuto riferire a Vance che aveva trovato poche risposte e ancora più domande. Se ci fossero stati dei sopravvissuti di Città di Sotto o della sua squadra di Baia Raggio di Sole da qualche parte giù in quell’oscurità, li avrebbe abbandonati al loro destino… e alcune di quelle persone erano suoi amici, e nessuno di loro si meritava di essere lasciato indietro. In più, Città di Sotto sarebbe rimasta vuota, e assoldare nuovi minatori sarebbe stato difficile, se non impossibile; chi avrebbe voluto lavorare in un posto dove tutti i precedenti abitanti erano scomparsi? E se nessuno avesse continuato con le miniere, allora non sarebbe arrivato denaro all’Alleanza di Bronzo, e sarebbe stata solo una questione di tempo prima che la fragile economia spezzasse nuovamente tutto nelle vecchie flotte di pirati in competizione.

Malcolm aveva adorato il suo periodo per mare, a navigare e volare libero sulle onde al sole e attraverso le tempeste. Sentire il brivido di privare i mercanti viziati dei loro beni, e i pirati rivali delle loro vite. Ma dopo la guerra, si era sentito quasi sollevato di assestarsi in un’esistenza più stabile. Perdere qualcosa del genere in questo momento… non era una cosa da considerare alla leggera, non quando avrebbe ancora potuto risolvere il problema. Non quando avrebbe potuto salvare delle persone, qualora avesse scelto di non arrendersi ancora.

“Cosa ne pensi, Braghe?” chiese Malcolm, appoggiandosi alla parete del tunnel. “Torniamo su e viviamo per fallire un altro giorno? O continuiamo a scendere nell’ignoto?”

Braghe si tolse il cappello, grattandosi la testa, poi alzò le spalle. “NIENTE MINIERA, NIENTE ORO.”

“Ci sono altre miniere” disse Malcolm. Ma nessuna era grande e produttiva come Città di Sotto, se voleva essere onesto. “E comunque, i morti non possono spendere monete, giusto?”

Era deciso, allora. Si era convinto ad andarsene. Vance avrebbe potuto inviare qualcun altro… molti altri, avrebbe suggerito Malcolm. Anche se così molte altre persone si sarebbero potute trasformare in… qualsiasi cosa fossero diventati i suoi compagni.

Un debole bagliore nella cavità attirò la sua attenzione. Malcolm si alzò a fatica e sbirciò oltre il limitare del tunnel, con una mano sull’impugnatura della spada.

Dei funghi strisciavano sulla parete, crescendo ad una velocità impressionante. Dei neri viticci formarono una rete di cerchi che sbocciarono in vari funghi diversi, alcuni piccoli e delicati, altri che sembravano i gradini di una scala, e altri ancora increspati come coralli. L’effetto era caotico e stranamente bello, nonostante gli rivoltasse lo stomaco.

Alcuni dei viticci si mossero come l’inchiostro su una pagina. Mentre Malcolm osservava, comprese che i funghi stavano formando delle parole, troppo scure per distinguerle. Lentamente, quelle parole iniziarono ad emanare lo stesso nauseante bagliore verde che aveva sopraffatto i compagni che aveva perduto.

SICURO, diceva la prima parola. E poi, GIÙ.

Era una tregua, o una trappola? Malcolm non poteva esserne sicuro. Ma ora sapeva che qualunque cosa avesse fatto tutto quello era senziente. Se fosse veramente stato così, forse la diplomazia non sarebbe stata completamente fuori questione. Forse gli abitanti di Città di Sotto erano veramente vivi da qualche parte laggiù, e lui avrebbe potuto portarli via in sicurezza.

La speranza era l’arma più pericolosa di tutte, e Malcolm la percepì scivolare tra le sue costole fino al proprio cuore, affilata come una lama.

Amalia[]

La sabbia comprimeva il corpo di Amalia, densa e pesante, peggio dell’acqua. Ruvida, si infilò nei suoi vestiti, nel naso, persino nella bocca e negli occhi, nonostante li avesse chiusi il più possibile. Come un lontano ricordo, le venne in mente che aveva detto a Kellan di trattenere il fiato, e anche lei l’aveva fatto. Più lo tratteneva, più si chiedeva se le sue abilità vampiriche l’avrebbero protetta dal soffocamento, se avrebbe passato l’eternità intrappolata in quel fiume di sabbia, incapace di morire, incapace di bere sangue donatore di vita.

Come se fossero state invocate dalla paura, le visioni la consumarono ancora una volta.

La misteriosa porta, rotonda e coperta di glifi, era più cristallina che mai. Era incastonata nella pietra della parete di una caverna, con la superficie ramata macchiata di verde corrosione.

Un cielo pieno di nuvole lievemente tinte di viola, solo che oltre il cielo si trovava… il terreno? Come se qualcuno stesse stendendo un’enorme mappa sopra di lei, dipinta con tutti i colori della terra che voleva rappresentare: verdi, marroni, blu e bianchi innevati.

Una sfera che bruciava lucente come il sole… era veramente il sole? Non poteva essere. Degli strani frammenti di metallo le fluttuavano attorno, ricordando ad Amalia un’armatura spezzata. Più indietro si trascinavano altri pezzi, come i detriti dopo un naufragio, brillanti di un colore viola rosato.

Vieni a me…

La pressione intorno ad Amalia improvvisamente diminuì, trasformandosi in una sensazione di caduta. Senza preavviso, colpì dell’acqua, spalancando gli occhi. Come avevano fatto a raggiungere l’oceano? No, quella era acqua dolce. Disorientata, iniziò a nuotare nella direzione sbagliata, verso ciò che sembrava una città, prima di capire che gli edifici si trovavano sott’acqua. Si voltò e scalciò verso la direzione opposta, infrangendo infine la superficie, ansimando. Intorno a lei altri fecero lo stesso, Kellan incluso, con sollievo di lei.

Non erano morti. Era stata così sicura prima che i Malamet avessero intenzione di ucciderli tutti, poi che le sabbie mobili avrebbero fatto il loro lavoro, eppure erano sopravvissuti ancora una volta. Semplice fortuna? O la volontà di Aclazotz?

Prima che potesse percepire più di una momentanea scarica di sollievo, nell’acqua vennero circondati da movimenti agitati. Araldi del Fiume, a decine, e tutti armati delle loro strane armi di giada e magie elementali.

“Non provocateci” disse uno dei tritoni. “Venite senza opporre resistenza o verrete sottomessi con la forza.”

Vitor sfoderò un ghigno e Bartolomé gli lanciò un’occhiata preoccupata. Di certo, cercare di combattere gli Araldi nel loro elemento sembrava proprio una perdita di tempo.

Kellan tossì e nuotò più vicino ad Amalia. “Non ci credo che sia la terza volta in un solo giorno che mi tendono un agguato” disse, tristemente.

Amalia soffocò una risata. “Attento a non renderla un’abitudine. Poi diventa difficile liberarsene.” Kellan sorrise e la schizzò scherzosamente con l’acqua, poi seguirono gli altri vampiri quando i tritoni iniziarono a guidarli verso la costa e un destino incerto.

Racconto successivo: The Lost Caverns of Ixalan Episode 4

Collegamenti esterni[]

Advertisement