The Gathering Storm/Capitolo Otto è l'ottavo capitolo di The Gathering Storm.
Capitolo Otto[]
Nemmeno dodici ore più tardi, Ral scese dal ponte di un’aeronave estremamente diversa per ritrovarsi sulla banchina che si slanciava dal lato di ciò che ora chiamavano la Torre del Faro.
L’aeronave faceva parte della piccola flotta Azorius, portava i colori del Senato ed era comodamente arredata per poter trasportare velocemente i dignitari in giro per la città. L’equipaggio aveva sistemato le funi con silenziosa efficienza, ed una formazione di totteri fece da scorta quando il vascello si alzò in volo, osservando ogni cosa con i loro freddi occhi meccanici. Ral si accigliò alla vista di quei marchingegni che fluttuavano sopra di lui mentre camminava sulla passerella. Lì, in territorio Azorius, volavano fitti come mosche su un cadavere, e difficilmente qualcuno poteva entrare o uscire senza che lo venissero a sapere.
Dovin Baan stava attendendo alla base del ponte, con indosso una tunica rossa e blu che dava risalto alla sua pelle blu sbiadito. Aveva le mani intrecciate dietro la schiena. La sua calma sembrava sovrannaturale, persino per i notoriamente flemmatici vedalken. Concesse un minuscolo inchino a Ral, che egli ricambiò, tenendosi il cappotto per evitare che svolazzasse a causa del vento. Erano almeno all’altezza del ventesimo piano, e anche se la tempesta del giorno prima si era già sfogata, delle nubi minacciose continuavano a circolare nei cieli, provocando delle pioggerelle irregolari.
“Mastro Zarek” disse Dovin.
“Mastro Baan.” Ral fece cenno all’aeronave con il capo. “Vi ringrazio per il passaggio.”
“Salire le scale è un utilizzo poco efficiente del nostro tempo” disse Dovin. “I vostri uomini hanno installato una sorta di dispositivo a fionda per raggiungere rapidamente la cima, ma presumo che sia ancora inaffidabile.”
“È già morto qualcuno?” disse Ral.
“Non credo. Una goblin si è rotta diversi arti, ha affermato che fosse stato ‘fantastico’ e ha chiesto di ‘fare un altro giro’.” Dovin alzò elegantemente un sopracciglio, e Ral rispose con un ghigno.
“A me sembra abbastanza affidabile” disse lui. “Non era necessario incontrarsi qui, sapete. Sono certo che il capomastro possa dirmi ciò che devo sapere.”
“Mi sembrava un gesto rispettoso” disse Dovin. “Sono estraneo al vostro mondo, come sapete.”
“Bè.” Ral fece spallucce. “Fatemi strada, allora.”
Dovin indicò, e Ral seguì l’indicazione. Il vedalken camminava in modo così fluido che sembrava levitasse, come se avesse perfezionato al massimo quel semplice movimento. Ogni cosa di lui era così: fluida, semplice, perfetta. Era snervante.
“Non vi date pensiero di nascondere la vostra condizione di Planeswalker” disse Ral.
“Ci sono poche ragioni per nasconderla, ora che voi avete reso pubblico il segreto.”
“Come mai volete stabilirvi qui? Stanco del vostro mondo? Kaladesh, giusto?”
“Non mi annoio facilmente, Mastro Zarek” disse Dovin. “Il più piccolo meccanismo, studiato nella sua completezza, può essere interessante tanto quanto il più complesso. No, la mia partenza da Kaladesh è dovuta a… sfortunate politiche locali, diciamo.”
“Vi siete ambientato bene qui, vedo.”
“Sono molto grato al Giudice Supremo Isperia” disse il vedalken. “Ho visitato altri mondi prima di raggiungere Ravnica, e lei fu la prima a farmi sentire al mio posto. Sono grato della possibilità di poter applicare i miei talenti al suo servizio.”
“E quali sono i vostri talenti, per l’esattezza?”
“La perfezione” disse Dovin, semplicemente. “La capacità di migliorare qualcosa, poco a poco, fino a farla diventare il vero esempio di ciò che è destinata ad essere. Una macchina, una burocrazia, una danza… la forma importa poco, ma è il procedimento che conta.” Il suo volto assunse uno sguardo raggiante, la prima emozione che Ral gli avesse visto esternare. “Il Giudice Supremo Isperia è stata così gentile da lasciarmi lavorare per gli Azorius, e credo che sia rimasta molto contenta dei risultati.”
“A quanto pare” mormorò Ral. Pensò agli onnipresenti totteri, che a quanto pare erano un’invenzione che Dovin si era portato con sé. Sapere ciò che fanno tutti in qualsiasi momento dovrà aiutare parecchio a raggiungere la perfezione.
Ral non riusciva a farsi piacere Dovin Baan.
“I nostri uomini vi stanno dando qualche disturbo?” disse lui, cambiando argomento mentre entravano. La Torre del Faro era sormontata da una grande cupola di rame, perforata da diverse piccole entrate, e Dovin ne aprì una con una chiave che portava alla cintura.
“Hanno fatto qualche richiesta insolita” ammise Dovin, “ma ho fatto del mio meglio per venire loro incontro. In alcuni casi, credo di essere diventato bersaglio di un qualche tipo di battuta.” Pronunciò molto attentamente quella parola, come se fosse un qualcosa di alieno che doveva essere tenuto a bada. “Non comprendo l’utilità di un panino all’alligatore in questo progetto, anche se spedito in modo particolarmente veloce, ma io-”
“Gli parlerò” disse Ral, sbuffando internamente.
“Non è un problema. Credo che fossero piuttosto sorpresi quando gliene portai uno in meno di un’ora.” Ral non poteva esserne sicuro, ma credette di aver visto l’ombra di un sorriso attraversare le labbra del vedalken. Non è tanto ingenuo come vuol far credere, allora. Dovin indicò una porta davanti a loro. “Questa è la camera primaria.”
La posizione del Faro Planare era stata dettata dalla complessa geografia metafisica di Ravnica, da quelle stesse correnti di energia che avevano dato energia al Labirinto Implicito. Pochissimi luoghi erano adatti secondo le planimetrie fornite da Niv-Mizzet, e solamente quello, avamposto e porto di aeronavi degli Azorius, aveva già una torre precostruita dell’altezza richiesta. Isperia aveva dato il permesso ad una squadra Izzet di trasferirsi lì ed occupare gli ultimi piani della torre, così da poter costruire la grande macchina secondo le specifiche del Mentefiamma.
Costruire il faro era parte dei compiti assegnati a Ral, ma l’aveva delegato ai suoi subordinati per troppo tempo, impegnato com’era per il coordinamento del vertice delle gilde. Per ora, però, quel compito sembrava a buon punto. L’assalto alla Cattedrale Orzhov era stato un successo. Hekara si stava ancora riprendendo nell’infermeria degli Izzet, dove Ral immaginava si stesse divertendo molto: i medici avevano la tendenza a testare le loro ultime invenzioni sui pazienti, ma sospettava avessero trovato pane per i loro denti in quell’emissaria Rakdos senza alcuna paura. Vraska era tornata al suo impero sotterraneo per prepararsi al vertice. E anche se non avevano avuto notizie di Kaya in persona, Teysa aveva inviato dei messaggeri a Isperia, affermando che gli Orzhov si sarebbero presentati al vertice, alla fine. La sfinge era impegnata a coordinare le miriadi di dettagli diplomatici, ma sembrava proprio che quell’incontro si sarebbe veramente tenuto.
Ma ciò non significa che sarà un successo. Già far accordare le gilde su qualcosa era stato difficile, senza nemmeno tener conto della possibilità che alcune di esse potessero avere degli agenti di Bolas infiltrati all’interno. Lazav era ancora un ottimo candidato per questo ruolo, nonostante le sue proteste, e Lavinia non si fidava di Vraska, nonostante le sue azioni alla cattedrale. Ral, stranamente, si trovò dalla parte della gorgone.
In qualsiasi caso, Niv-Mizzet richiedeva comunque un piano di riserva, quindi la costruzione del faro stava procedendo spedita. Lo spazio all’interno della cupola di rame era invaso da cavi, bobine di mizzium ed enormi cristalli di risonanza posti ad intervalli regolari tra loro. Un cupola interna più piccola delimitava una zona delle dimensioni di una grossa stanza, il cui unico punto di accesso era una pesante porta schermata. Quella che ora Dovin stava aprendo per entrare nel cuore del macchinario.
Quando ai chimimaghi Izzet veniva assegnato un incarico, solitamente il risultato finale rispecchiava solo vagamente ciò che era stato richiesto inizialmente. Ma in quel caso, Ral era compiaciuto nel vedere che si erano attenuti abbastanza strettamente al progetto di Niv-Mizzet, con l’aggiunta solamente di qualche tocco decorativo. Al centro del faro si trovava un singolo sgabello di metallo, circondato da una tavola di controllo semicircolare che gli curvava attorno, ricoperta di interruttori, pulsanti e quadranti. Una serie di tasti d’avorio, simili ad una sezione di tastiera di un pianoforte, occupava il centro. Da essa partivano dei cavi, che raggiungevano il soffitto fino ad arrivare ai marchingegni presenti tra le due cupole.
Diversi umani, un goblin ed un viashino si spostarono verso la plancia di controllo, inchinandosi all’arrivo di Ral. Dovin osservò impassibile.
“Mastro Zarek!” disse il goblin. “Chimimago Capo Varryvort, signore. Sono contento che siate venuto a fare una visita. In realtà, avete avuto un ottimo tempismo.”
“Grazie, Chimimago Capo” disse Ral. “Perché?”
“È giunto il momento di impostare la misura di sicurezza finale, signore. Pensavamo che doveste essere voi a scegliere la sequenza, per questioni di sicurezza.”
“Ah.” Ral lanciò un’occhiata a Dovin, che aveva un sguardo inquisitorio. “Attivare il faro è potenzialmente molto pericoloso” spiegò. “Quindi c’è una specie di chiave, una sequenza che solamente io e Niv-Mizzet conosceremo. Per sicurezza.”
“Molto saggio” disse Dovin.
“Quindi avete finito la gestione interna?” disse Ral a Varryvort.
“Sissignore. Manca solo la calibrazione dei risonatori e la modulazione degli accoppiatori primari di energia. Qualche altro giorno e saremo pronti.”
“Per una macchina che deve solo essere accesa o spenta, mi sembra che abbia un mucchio di controlli.”
“Sono quasi tutti a scopo di test, signore. Controlliamo ogni componente in modo individuale, visto che non possiamo effettuare un test completo del sistema.” Il goblin spinse Ral verso lo sgabello ed indicò un grosso interruttore. “Attivate quell’interruttore, inserite la vostra sequenza, rimettete l’interrutore nella sua posizione iniziale ed il faro verrà attivato. Come da progetto del Mentefiamma, rimarrà attivo finché le sue riserve di energia interne non si esauriranno, indipendentemente da tutto.”
“Bene.” Varryvort sembrava dubbioso, ma Ral comprendeva il perché. Se dobbiamo attivare il faro, potremmo aver già fallito. Non voglio che Bolas abbia la possibilità di spegnerlo. “La sequenza di sicurezza?”
“Oh, sì.” Il goblin corse dietro alla plancia e spinse alcuni pulsanti, poi la tastiera da pianoforte si illuminò. “Prego. Sette tasti, in qualsiasi ordine. Vi prego di non dimenticarla, o dovrò fare a pezzi l’intera struttura per poter eseguire una sovrascrittura.”
“Capisco” disse Ral. Si guardò brevemente alle spalle, ma Dovin era rimasto ad una buona distanza verso il fondo della stanza. Ral si piegò sulla tastiera ed inserì la sequenza, una parte di una squallida poesia musicale che Elias aveva scritto per lui molto tempo prima. La luce si accese, poi si spense.
“Mi sembra di notare” disse Dovin quando Ral si raddrizzò, “che questo sistema sia un po’ fragile. Cosa succederebbe se foste incapacitato a venire qui? Non sarebbe meglio che più individui siano a conoscenza del codice?”
“Lo comunicherò a Niv-Mizzet” disse Ral. “E se qualcuno riesce ad arrivare a lui, credo che il problema sia ben più grave.”
“Oh, sì” disse Dovin. “Spero veramente di avere l’opporunità di parlare al vostro Mentefiamma, prima o poi. Sono sicuro che sarà un’esperienza affascinante.”
“Lo penso anch’io.” Ral scosse la testa. “Bene. Il piano di riserva è a buon punto. Cerchiamo di far sì che non ci serva.”
“Il Giudice Supremo Isperia sta lavorando duramente.” Dovin si inchinò ancora leggermente. “Riuscirà a riunire tutte le gilde, non dubitatene.”
Lo spero vivamente. Per qualche motivo, Ral vide il volto di Garo che parlava come se fosse Bolas, poi scosse la testa.
Kaya si svegliò, e desiderò immediatamente di non averlo fatto.
Ogni cosa sembrava farle male, dal dolore nel petto quando respirava troppo a fondo alla botta grande come un uovo che aveva sulla nuca. Cerchiamo di non farci prendere a pugni da altri giganti. Ancora più preoccupante, però, era quella sensazione di essere incatenata, come se qualcosa l’avesse afferrata a livello metafisico e si rifiutasse di andarsene. Quei dannati fantasmi mi hanno fatto veramente qualcosa. Forse una maledizione? Aveva già sentito parlare di maledizioni mortali, ma mai di maledizioni immortali. Credo che ogni cosa sia possibile, a questo punto.
Con un sospiro, aprì gli occhi. Si ritrovò in una stanza da letto decorata in modo elaborato. I toni cupi e l’eccessiva lucentezza le fecero capire che si trovava ancora all’interno della Cattedrale Orzhov. Si distese in un letto a baldacchino, con coperte di seta e cuscini ricoperti di fiocchi e bordi di perla. Il resto della stanza era arredato con lo stesso stile elaborato. Quindi vuol dire che abbiamo vinto, credo. Di sicuro questa non è la cella di una prigione.
Dopo un po’, la porta si aprì, ed una donna di servizio vestita di grigio entrò con una brocca d’acqua. Sussultò quando Kaya si mise seduta o, almeno, quando provò a farlo. Kaya si sistemò appoggiandosi con i gomiti.
“Siete sveglia!” La donna riacquisì il suo decoro e fece un profondo inchino. “Le mie scuse, Capogilda. Avete bisogno di qualcosa?”
“Quell’acqua andrebbe benissimo” disse Kaya. Poi, dopo un attimo, aggiunse “Come sarebbe a dire ‘capogilda’?”
La servitrice versò in silenzio un bicchiere d’acqua e lo portò sul comodino di Kaya, lasciando la brocca su un tavolino. Kaya bevve avidamente e si alzò ulteriormente.
“Per quanto sono rimasta svenuta?” disse.
“Per quasi un giorno.” La servitrice ondeggiò nervosamente. “Scusatemi, Capogilda, ma Madama Teysa ha richiesto che la informassimo del vostro risveglio, così che possa incontrarvi. Ho il vostro permesso per andarla a chiamare?”
“Non finché non mi spiegherai perché mi stai chiamando ‘capogilda’.”
“Madama Teysa vi spiegherà ogni cosa” disse la donna, con uno sguardo implorante.
Kaya sospirò e le fece cenno di andare. Bevve dell’altra acqua, stiracchiandosi le braccia e controllando la portata dei suoi movimenti, sobbalzando quando il petto le provocò una forte fitta. Dopo alcuni minuti la porta si aprì nuovamente, e Teysa entrò. Era vestita con i paramenti completi della sua gilda, i capelli neri che si confondevano con la sua uniforme nera senza alcuna interruzione, che rivelava anche un certo fisico.
“Kaya” disse lei. “Come ti senti?”
“Dolorante” disse Kaya, “e un po’ confusa. Cosa sta succedendo?”
“Abbiamo vinto” disse Teysa, prendendo una sedia dorata dall’altro lato della stanza e sedendosi di fianco al letto di Kaya. “Il Concilio Fantasma non esiste più, e gli alti ufficiali della gilda hanno accettato il fatto compiuto.”
“Quello l’avevo capito, visto che mi trovo qui e non a marcire conficcata su qualche picca. Quindi perché i suoi servitori mi stanno chiamando capogilda? Dovrebbe essere lei l’erede, o no?”
Teysa strinse le labbra e si guardò alle spalle per assicurarsi che la porta fosse ben chiusa. Si avvicinò a Kaya, parlando a bassa voce.
“Ci sono state delle… complicazioni.”
“Non l’avrei mai detto” disse Kaya freddamente. “Che tipo di complicazioni?”
“La gilda è implicata in una grandissima quantità di contratti, la cui forza è dettata dai nostri maghi della legge” disse Teysa. “Io credevo, e così anche molti ufficiali della gilda, che la maggior parte di quei contratti fosse applicata alla gilda come ragione sociale, ossia che non avrebbero subìto alcuna conseguenza ad un cambio di leadership. Sfortunatamente, sembra che mio Nonno concludesse molti accordi personalmente. Forse la maggior parte.”
“Non sono sicura di seguire.”
“Quando l’hai distrutto, quegli accordi si sono trasferiti a te” disse Teysa. “Ecco cosa ti ha messo al tappeto. Ora tu sei, a tutti gli effetti, la controparte di quasi ogni obbligo finanziario stipulato dalla banca degli Orzhov, oltre che la detentrice di parte del debito del Decimo Distretto. Per dirla senza giri di parole, tu ora sei gli Orzhov, in tutto ciò che conta. La gilda non ha altra scelta se non riconoscerti come sua capogilda.”
“Cosa?” Kaya scosse la testa. “Spero che lei stia scherzando.”
“Non posso essere più seria” disse Teysa. La sua espressione era cupa. “Mi sono sforzata parecchio, credimi.”
“Perché?”
“Perché l’alternativa sarebbe stata quella di ucciderti nel sonno. Non sappiamo se il trasferimento dei contratti avrebbe funzionato allo stesso modo con una persona vivente così come ha già fatto con un fantasma, ma alcuni ufficiali della gilda avevano intenzione di provarci piuttosto che riconoscere l’autorità di un’estranea.”
“Oh.” Kaya esitò. “Suppongo di doverle dei ringraziamenti.”
“Non c’è di che” disse Teysa freddamente. “Non mi sembrava il giusto modo di ripagarti. E, comunque, non rischierei il futuro della gilda senza sapere come funziona un tipo di magia a noi sconosciuta.”
“Va bene” disse Kaya. “Ovviamente, ora che sono sveglia, possiamo risolvere il problema. Io qui dichiaro di dare ogni cosa a lei qui presente, giusto?” Si guardò il resto del corpo, speranzosa, ma quella strana sensazione di legame non se n’era andata.
“Non è così semplice” disse Teysa, sospirando. “I nostri maghi della legge stanno lavorandoci proprio in questo momento, ma quasi tutti questi contratti sono stati conclusi in modo personale. Non possono essere trasferiti senza essere infranti.”
“Io non posso rimanere qui” disse Kaya, sentendosi improvvisamente in panico. “Questo incarico per me è terminato. Ho anch’io i miei debiti da riscuotere.”
“Lo so, ma ti prego.” Teysa le prese la mano. “Non puoi andartene. Non ancora. Non puoi… fare un viaggio planare, hai capito? Ecco perché volevo essere qui non appena ti fossi risvegliata. Se sparisci, le conseguenze potrebbero essere catastrofiche, sia per gli Orzhov che per te.”
“Per me? E perché?”
“Per il contraccolpo.” Teysa scosse la testa. “Questi contratti sono stati creati per essere applicabili. Se vengono risolti tutti in una volta sola, la loro forza combinata potrebbe facilmente ucciderti, o farti diventare pazza.”
“Spero che lei stia scherzando.” Kaya si raddrizzò ancora, sussultando. “Quindi sono bloccata qui? Come… capogilda di questa specie di banca-culto? E-” Iniziò a tossire, cosa che le fece ancora più male, facendola piegare in due dal dolore.
“Lo so” disse Teysa. “Credimi, sto cercando di rimediare alla cosa il più velocemente possibile. Riusciremo a farti uscire da questa situazione, te lo prometto.” Teysa attese che Kaya smettesse di tossire, e le porse un bicchiere d’acqua. “Sono in enorme debito con te, Kaya. Non sarei libera, e forse nemmeno viva, se non fosse stato per te. Ma… ci vorrà tempo.”
“Io non ho tempo.” Bolas le aveva promesso che avrebbe guarito il cielo. A casa sua la gente stava soffrendo. Si sono fidati di me.
“Non hai scelta.” Teysa respirò profondamente. “Per ora, devi comportarti da capogilda. Io… ti assisterò, ovviamente, ma devi fare qualche apparizione pubblica. Altrimenti le voci all’interno della gilda che vogliono ucciderti e affrontarne le conseguenze diventeranno sempre più forti.”
“Spero che lei stia…” Kaya scosse la testa. “No, certo che no. Ovviamente.”
“Mi dispiace. Non mi aspettavo una cosa del genere.”
“Spero vivamente di no.” Kaya digrignò i denti. “Se ne vada.”
“Vorresti-”
“Mi riposerò un po’. Poi penserò ancora a tutta questa situazione.” Kaya si sdraiò su un lato, dando le spalle a Teysa. “Ora se ne vada. Ordine della capogilda.”
“Come desideri.” Teysa si alzò in piedi. “Mi dispiace. Veramente.”
Kaya non disse nulla quando Teysa se ne andò. Udì solo la porta aprirsi, e poi chiudersi.
Riuscì a dormire, almeno un po’. Kaya sognò un cielo blu attraversato da delle crepe scintillanti, come fosse un arcobaleno irregolare, e un mondo che diventava un po’ più pazzo ogni anno che passava. Diverse volte si svegliò a causa dei servitori che entravano nella stanza per fare il loro lavoro. A quanto pare, i capigilda non hanno diritto ad una propria privacy.
Alla fine, era troppo dolorante per stare a letto. Kaya si rigirò con un sospiro e si bloccò. Un uomo anziano senza un dente e con dei capelli bianchi spettinati, vestito con la tunica grigia dei servitori Orzhov, si sedette sulla sedia che Teysa aveva lasciato vuota, fissandola con il mento appoggiato tra le sue mani. Kaya percepì contemporaneamente il bisogno di nascondersi dal suo sguardo e di fargli saltare quell’ultimo dente con un pugno.
Invece decise di dire “C’è qualche problema?”
“No” disse lui. “Nessun problema. Volevo solo congratularmi con te per la tua ascesa a capogilda. Sono veramente felice che tu possa rimanere su Ravnica ancora un po’.”
“Cosa?” Kaya si mise seduta, e la mano andò meccanicamente verso il pugnale che ora non si trovava nel solito posto. Ma dove me li avranno messi, poi? “Chi sei?”
“Solo un povero debitore, venuto a controllare i termini del suo accordo.” L’anziano sorrise, un ghigno da squalo che sembrava decisamente sbagliato per quel volto rugoso. C’era qualcosa anche nella sua voce che sembrava familiare. Kaya trattenne il respiro.
“Bolas?”
“In un certo senso. In verità, soltanto un povero messaggero, ma abbastanza per fare ciò di cui ho bisogno.”
“Bastardo” ringhiò lei. “Sapevi che sarebbe successo questo, vero? Mi hai ingaggiato per uccidere il Concilio Fantasma per tuo conto, ma sapevi che sarei rimasta bloccata qui.”
“Diciamo che avevo dei sospetti. Nonno Karlov non è mai stato un tipo di cui fidarsi.” L’anziano, il ricettacolo di Bolas, fece spallucce con una sola spalla. “Ma ciò ci posiziona perfettamente per la parte successiva del tuo incarico.”
“Non c’è nessuna parte successiva, serpente. Questo non faceva parte degli accordi.”
“Ah, ma ora hai bisogno di ulteriori servizi da parte mia, non è vero? Aiuto per il tuo povero piano nativo spezzato, come avevamo pattuito originariamente, ma anche un metodo di estrazione dalla tua attuale situazione.”
Kaya si fermò. “Puoi farmi uscire da questa condizione?” La sua voce era rigida: sapeva già la risposta a quella domanda.
“La magia della legge fa parte del mio repertorio da millenni” disse Bolas, la cui vibrante voce suonava innaturale emessa dall’anziano uomo. “Posso liberarti di quel fardello, certo. Ma prima devi fare una cosa per me.”
Kaya respirò profondamente, sussultò, poi espirò lentamente. “Che cosa vuoi?”
“Ci sarà una conferenza” disse Bolas, avvicinandosi. “Una conferenza alla quale tu parteciperai come rappresentante degli Orzhov…”
Nel sogno di Ral, lui aveva nuovamente vent’anni.
“Elias?” Sbirciò con la testa dentro la loro camera da letto condivisa, dove il pavimento era disseminato di vestiti lasciati a terra. Era vuota, proprio come lo studio, nel quale il tavolo da scrittura di Elias era circondato da pile di libri dall’equilibrio sempre più precario.
“Quaggiù!” disse Elias.
Ral scese le scale. Vivevano nella villetta a schiera da quasi un anno ormai (una nuova e lussuosa abitazione a tre piani, nel pieno centro di Tovrna), e ancora gli sembrava troppo grande. Ogni tanto sognava di poter trovare delle nuove stanze piene di aggeggi incomprensibili, nascoste in qualche angolo dimenticato.
Trovò Elias in sala da pranzo in compagnia dei loro due domestici, dove stavano discutendo dei preparativi per la cena. Al tavolo c’era comodamente posto per dieci persone, ma sembrava che Elias volesse riuscire a farcene stare quattordici, con un servitore pronto a portare dentro una quindicesima sedia in caso di bisogno. La sua ultima poesia deve aver veramente attirato un sacco di ammiratori.
Negli ultimi tre anni, la carriera di Elias era decollata in un modo che non si sarebbero mai immaginati. Le porte delle società artistiche più antiche e compassate di Tovrna si erano aperte per lui, e la critica che non degnava di uno sguardo nulla che fosse stato scritto nell’ultimo secolo aveva improvvisamente guadagnato interesse nelle sue opere. Elias scriveva furiosamente, con le parole che continuavano a fluire dalla sua penna, e venne ufficialmente riconosciuto come luce guida della nuova moda letteraria. Cenava con gli oligarchi, e l’elite partecipava alle cene organizzate da lui.
Per Elias era un mistero, il sorriso di una qualche divinità che lo aveva guardato con il broncio per tutta la sua vita. Solo Ral conosceva la verità. Non c’entrava alcuna divina provvidenza, ma solamente la mano nascosta di Nicol Bolas, che sembrava avere conoscenze radicate ad ogni livello della società.
Non può essere tutto merito di Bolas, si diceva Ral, mentre osservava Elias lavorare. Lui ha soltanto aperto la porta. Se Elias non avesse un vero talento, sicuramente non sarebbe andato da nessuna parte. Ma, nei suoi momenti più bui, rimetteva in discussione questa visione.
I soldi guadagnati con la scrittura di Elias, insieme a quelli del lavoro di Ral, gli permisero di vivere in linea con il loro nuovo status. Ral si aspettava di incappare in qualche problema con i loro vicini aristocratici, ma anche in quella questione sembrava che il suo mecenate avesse spianato la strada. Tutti davano per scontato che quei due giovani dovessero venire accettati.
Era tutto ciò che Elias aveva sempre desiderato. Ossia tutto ciò che anch’io ho sempre desiderato. E che ci fosse un costo, Elias non doveva assolutamente saperlo.
“Ral!” disse Elias, affrettandosi verso di lui e dandogli un fugace bacio. “Questa cosa mi sta facendo impazzire. Dimmi, preferiresti sederti vicino a Lord Villiers o a quella bella donna dello studio di scultura?”
“A nessuno dei due, temo” disse Ral. Diede a Elias un momento per prendere i suoi vestiti più mondani ed il suo lungo cappotto di cuoio. L’espressione sul volto del suo amato lo colpì dritto al cuore.
“Stai uscendo?” disse Elias.
“Sai che devo farlo” disse Ral, tranquillamente.
“Ma ieri sera mi avevi detto-”
“Lo so.” Ral fece un movimento, a disagio. “Mi hanno detto soltanto un’ora fa che hanno ancora bisogno di me.”
“Io ho bisogno di te” disse Elias. “Quand’è stata l’ultima volta che sei venuto ad una delle mie cene?”
“Non mi ricordo” disse Ral, onestamente. “Ma sai che comunque sarei solo fonte di imbarazzo.” Cercò di prendere il braccio di Elias. “Se dovessi scegliere, preferirei passare del tempo con te in privato-”
Elias si allontanò. “Non farlo.”
“Mi dispiace.” Ral scosse la testa. “Parlerò col capo. Gli chiederò di poter prendere un mese di permesso. Potrebbe aiutare?”
“Potrebbe.” Il labbro di Elias si incurvò leggermente. “Verrai alle mie feste?”
“Ogni sera.”
“Bè… magari non ogni sera.” Elias sospirò e diede a Ral un altro veloce bacio. “Va bene. Fa il bravo.”
“Sempre.”
Fuori, il sole era già tramontato dietro la schiera di villette, e il cielo stava perdendo colore. Ral strinse un po’ di più il suo cappotto a causa del freddo. Si diresse lontano dal centro della città, oltrepassando le eleganti ville ed i parchetti ben tenuti, andando oltre anche all’anello di elegante povertà nel quale lui ed Elias avevano faticato a sopravvivere, fino a raggiungere gli oscuri palazzi che circondavano il luminoso centro di Tovrna come un cerchio di tumori rigonfi.
Lì gli appartamenti erano piccoli, ma comunque pieni del massimo numero di persone che potevano contenere. Gli uomini dormivano a turni, organizzati come nelle infinite ore di lavoro alle fabbriche. I fili per stendere la biancheria zigzagavano tra gli stretti vicoli come la tela di un ragno, nella vana speranza di vedere qualche raggio di sole. Durante il giorno, branchi di bambini correvano senza sosta, delle piccole gang capeggiate dai più grandi e dai più forti.
Di notte, ovviamente, erano le vere gang che prendevano il controllo delle strade. Ral era cresciuto lì, e aveva sempre saputo che i bassifondi erano un terreno diviso in parti tanto intricate quanto quelle di un regno feudale. Ciò che al tempo non sapeva, era che quelle gang giuravano fedeltà alle famiglie di oligarchi di Tovrna. Aveva una sua logica: era semplicemente un’altra tipologia di affari, un altro investimento, e le persone coinvolte spesso erano gli stessi lavoratori che sgobbavano nelle fabbriche possedute dai nobili.
Ral ancora non aveva idea se Bolas fosse effettivamente un nobile, o se lavorasse per uno di quella levatura. Non l’aveva mai visto in pubblico, e nessun’altro sembrava conoscerlo. Ma le sue connessioni erano incredibilmente vaste. Lavorando per lui, Ral aveva imparato a trasformare le piccole scintille di fulmini che poteva generare grazie al suo potere in un’arma dal potenziale letale. Lui puntava quell’arma nella direzione che gli indicava Bolas, quasi sempre contro i farabutti che lavoravano per altre casate nobiliari.
Ed era lì che Ral si sentiva realmente felice, a lavorare contro gli interessi di persone come il conte e a far sanguinare il naso di chiunque cercasse di fermarlo. Sperava un giorno di incontrare nuovamente Gunther, per mostrargli chi era diventato il “mago della pioggia”. Anche solo il pensiero gli provocava delle piccole scintille di elettricità statica sulle mani.
Certe notti, però, l’incarico era diverso. Come quella notte.
Comunque, è tutto per il bene di Elias, pensò Ral, mentre girava l’angolo per raggiungere l’edificio designato. Era un grande alveare pieno di piccoli appartamenti, con centinaia di persone che vivevano una in braccio all’altra. Un vecchio senza una gamba era seduto sulla scalinata di ingresso, ed osservò dolorosamente Ral mentre entrava.
Elias non sapeva quello che faceva Ral, non esattamente. Sapeva che Ral aveva un lavoro che lo portava fuori la notte, a compiere incarichi importanti per una delle famiglie nobili, ma Ral si era sforzato molto per impedirgli di scoprire che nel suo lavoro doveva far male a delle persone. Non deve saperlo. Nonostante Elias guadagnasse un po’ di soldi con le sue opere, aveva le mani bucate, e senza lo stipendio che Bolas pagava a Ral loro due sarebbero tornati dritti dritti nei canali di scolo, indipendentemente dal numero di amici eleganti che dichiaravano di aver comprato le sue opere. È lui quello con il talento. Io farò ciò che è necessario, fintanto che lui è felice.
Salì gli scalini fino a raggiungere il terzo piano, poi camminò per un corridoio sudicio, controllando attentamente le targhe numerate. Quando trovò quella di cui aveva bisogno, provò a girare la maniglia. Chiusa. Guardò ai due lati del corridoio, ma nessuno stava guardando. Ral era cresciuto in un luogo del genere, e sapeva che tutti imparavano a farsi gli affari propri. Incanalò attentamente l’energia nella serratura, finché lo scadente metallo di cui era composta si scaldò abbastanza da deformarlo con una semplice pressione. La porta si aprì con un lieve cigolìo e lui entrò all’interno.
Era un appartamento grande per gli standard dei bassifondi. Aveva due stanze, una per mangiare e una per dormire. La prima era occupata da un tavolo e da un paio di sedie, e Ral vi trovò una giovane donna vestita di un grigio polveroso seduta in un angolo, a lavorare con un paio di ferri da maglia. Ral sapeva tutto quanto anche in questo caso. Nei bassifondi, il salario pagato dalle fabbriche era appena sufficiente per comprare del cibo e tenere un tetto sopra la testa. Se volevi qualsiasi altra cosa, come vestiti, medicine o libri, dovevi farteli da solo, oppure usare il tempo libero per lavorare a qualcosa che potessi vendere o barattare. Tutte le donne nell’edificio dove si trovava sua madre lavoravano a maglia, cucivano o copiavano documenti a mano per gli studiosi squattrinati.
La donna era così assorta nel proprio lavoro che non alzò lo sguardo finché Ral non si schiarì la gola. Il suo volto era smunto e grigio quanto la sua intera persona, e sussultò leggermente alla sua vista.
“Anne Hannover?” disse lui.
“Io…” Sembrò quasi sul punto di negarlo. “Sì. Suppongo di sì. Chi sei?”
“Lavoro per Mastro Venati” disse lui. “Mi ha chiesto di passare per controllare il vostro pagamento di questo mese.”
Quella era la parte che Ral detestava, il lento arrivo della comprensione nei loro occhi. I più svegli lo capivano subito, e quella donna era sveglia. Era contento che lo fosse. Non doveva spiegarle ciò che sarebbe arrivato dopo: che Mastro Venati si aspettava un pronto pagamento dei suoi debiti, e che quando Mastro Venati non era soddisfatto, certe persone potevano farsi male.
Hanno fatto tutti la loro scelta, si disse Ral. Anche quando non aveva un soldo in tasca, sapeva bene di non farsi coinvolgere da certi squali dei prestiti. E se non ci fossi stato io, ci sarebbe stato qualcun’altro. Alcuni dei suoi colleghi speravano vivamente che i loro clienti non pagassero. Meglio io che il Grande Sal, o Nak lo Squartatore.
“Io…” La voce di Anne si spezzò. “Non ce li ho. Avrei pagato, se avessi potuto, lo giuro.”
“Mastro Venati è sempre felice di rinegoziare i suoi termini” disse Ral.
“Tutte le volte che lo faccio, il mio debito raddoppia” disse Anne. “Ti prego. Dammi un altro mese.” Indicò il suo lavoro a maglia. “Sto lavorando duramente, lo giuro. Quasi non dormo. Ma il cibo e le medicine sono costosi-”
“Non è la prima volta che hai ritardato.” Ral fece un passo in avanti, alzando una mano coperta di scintille.
“Ti prego-”
“Lasciala stare!”
Ral non voleva veramente ferire la donna, o così si disse più tardi. Le persone ferite non potevano guadagnare i soldi per pagare il loro debito, dopotutto. Alla maggior parte dei clienti serviva solamente un po’ di spavento, così da instillare la giusta motivazione. Ma si teneva sempre all’erta, perché a volte potevano diventare violenti. Lui quindi non venne preso totalmente di sorpresa quando qualcuno si lanciò dalla soglia della camera da letto e lo colpì.
Fu sorpreso, però, che fosse un ragazzino di dieci anni.
Quello lo fece esitare abbastanza a lungo da fare in modo che il ragazzino arrivasse alla sua portata. Ral percepì un acuto dolore al fianco, e colpì istintivamente con le mani verso il basso per allontanare il bambino. La sua energia scaturì non appena toccò il ragazzino, crepitando attraverso il suo corpo in un nefasto arco che gli fece vibrare gli arti e lo scaraventò contro il muro. Collassò tra le convulsioni, mentre la donna urlava.
Ral abbassò lo sguardo verso il suo fianco, dove un coltello dalla lama corta era stato conficcato fino all’impugnatura. Lo estrasse e lo lanciò via, spargendo sangue. La donna era corsa al fianco del figlio. Ral si inginocchiò di fianco a lei, chinandosi sul bambino, quasi come si trovasse in un sogno. Lei gli urlò contro qualcosa, gli tirò dei pugni sulla spalla, ma lui la ignorò.
Mise una mano sul cuore del ragazzino. Stava battendo fortissimo ma in modo irregolare, visto che la corrente stava ancora attraversando il suo intero sistema. Ral chiuse gli occhi e attirò l’elettricità verso di sé, assorbendo tutto ciò che poteva dal piccolo corpo del ragazzino. I suoi shock solitamente non erano mortali… non aveva ancora dovuto uccidere nessuno al servizio di Bolas. E comunque solitamente non colpisco i ragazzini.
Lentamente, percepì il battito cardiaco del ragazzo tornare alla normalità. La donna aveva smesso di colpirlo ed era tornata a scuotere il figlio, che improvvisamente iniziò a tossire e a respirare con un sospiro rauco. Lei lo tirò su, prendendolo tra le braccia.
“Digli che pagherò” disse lei, con una voce rude. “Pagherò, pagherò, pagherò. Ma non fate del male a mio figlio.”
Ral si alzò, frastornato. Si premette una mano al fianco, e sentì il sangue scorrergli tra le dita. Si voltò senza dire una parola e barcollò attraversando l’ingresso.
Ral non sapeva come aveva fatto a tornare indietro verso la villa, sapeva soltanto che ci aveva messo parecchio tempo. Nel momento in cui raggiunse la porta di casa, quasi tutte le luci in strada erano spente, ed i carri davanti a casa se n’erano andati. La mano sinistra di Ral era viscida di sangue. Rovistò un po’ con il chiavistello prima di riuscire ad aprirlo, barcollando all’ingresso.
Non va bene. I suoi pensieri erano annebbiati. All’iniziò pensò che fosse una ferita superficiale, ma non aveva più smesso di sanguinare. Probabilmente ha colpito un’arteria. Sembrava che non riuscisse nemmeno a respirare bene.
“Elias.” Non aveva le forze per gridare. “Elias…”
Udì delle risate dal salotto, poi silenzio. Ral fece un passo in quella direzione, poi un altro. Le gocce di sangue macchiarono il tappeto.
Chiuse gli occhi per un attimo, e vide gli arti del ragazzo tremare con uno spasmo. Sentì le suppliche disperate della donna.
“Pagherò…”
Come se fosse stata sua intenzione farlo. Come se avesse fatto del male ad un bambino per conto di Bolas.
“Pagherò…”
Raggiunse la porta del salotto. Udì una risatina, poi entrò.
Elias era in piedi contro al muro di fianco al focolare. C’era un altro uomo con lui: un bell’uomo, alto, con dei capelli bianchi ben pettinati. Per un secondo credette che Elias stesse venendo aggredito. Non riusciva a comprendere ciò che i suoi occhi gli stavano mostrando.
Si stavano baciando, velocemente e selvaggiamente. L’altro uomo aveva infilato le mani sotto la camicia di Elias, ed Elias si lasciò scappare quel dolce e piccolo sospiro che aveva riservato solo e solamente per Ral-
A Ral doveva essere scappato qualche rumore, perché Elias raddrizzò la sua posa, spingendo via l’altro uomo.
“Ral!” disse lui.
“Tu…” Ral rimase in piedi sulla soglia, ondeggiante. “Tu stavi…”
Era tutto per te. Ho fatto tutto questo per te.
La donna supplicò. Gli arti del bambino tremavano.
Per te, ho venduto la mia anima.
“Io…” Elias scosse la testa, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. “Cos’avrei dovuto fare, Ral? Non sei mai qui e mi sono sentito… solo, e... “ Il suo volto si deformò per la rabbia. “Che problemi hai? Sei ubriaco?”
“Penso che sia ferito” disse l’altro uomo. “Quello è sangue?”
Elias sussultò, ma Ral non stava più ascoltando. Qualcosa dentro di lui si era liberato, una sorta di istinto primordiale per andarsene, il più lontano possibile. E, effettivamente, era veramente molto lontano. Una scintilla divampò con nuova vita, strappando il tessuto del mondo, dopodiché Ral sparì all’istante.