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Blood ArtistART1

Non c'è vera arte senza una vera sofferenza.

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L'Era dell'Eternità è un articolo della rubrica Magic Story, scritto da Ken Troop e pubblicato sul sito della Wizards of the Coast il 12 luglio 2017. Narra dell'era dell'eternità dal punto di vista di diversi personaggi di Amonkhet.

Racconto precedente: La favorita

Prefazione[]

Il Dio Faraone è tornato e, come predetto, le cinque Ere hanno avuto inizio. Le Ere della Rivelazione, della Gloria e della Promessa hanno scatenato un cataclisma su Naktamun e ora l’Era dell’Eternità porta un’inimmaginabile terrore in ogni cittadino.

Storia[]

La fede era giustificata.

Nylah non aveva mai compreso i ferventi prima di quel momento, non aveva mai compreso il loro sconfinato bisogno di proclamare la propria fede. Le divinità avevano camminato tra di loro, senza richiedere alcuna fede, poiché erano visibili di fronte a loro. Potevano toccarle con mano. Potevano udire le loro parole. Le parole pronunciate dalle labbra delle divinità risuonavano in ogni parte della città, con un peso divino più solido e vero di ciò che semplicemente esisteva.

Non aveva mai compreso che cosa fosse la fede. La riteneva una debolezza, un’eccessiva esternazione di venerazione da parte dei deboli di carattere. A che cosa poteva mai servire la fede, quando le divinità erano così vere?

Ora aveva trovato la fede.

Il ritorno del Dio Faraone aveva occupato una minima parte dei suoi pensieri. Doveva ancora imparare così tanto, doveva allenarsi ancora così tanto. Voleva essere la migliore, come lo volevano anche gli altri. Che utilità avrebbe avuto pensare a ciò che si trovava oltre le ordalie, quando tutto ciò a cui aspirava erano le ordalie? Nessun amante, nessun figlio e nessun amico aveva mai fatto parte della sua vita per lungo tempo. Nessuno era in grado di competere con la sua ambizione. Certo, le divinità meritavano la sua venerazione e la sua preghiera quotidiana era il suo addestramento. Il suo obiettivo finale era diventare degna. Non aveva competizione in quel desiderio.

Tuttavia, il battito del suo cuore era diventato più rapido nel momento in cui i cancelli verso il paradiso si erano spalancati. Sapere che quel giorno era giunto e che l’eternità era in quel luogo. Aveva allungato il collo, impaziente di essere testimone della benedizione divina... ma da quei cancelli non era giunta alcuna benedizione, bensì solo orrore.

Non aveva apprezzato la bellezza della sua città finché non le era stata portata via. L’imponente Luxa, un tempo blu come il cielo dell’estate, era diventato di un colore rosso sangue, colmo di puzzolenti cadaveri di pesci e di ribollente sudiciume. Nubi di locuste ronzanti stavano devastando giardini e alberi, aggredendo piccoli animali e lasciando solo ossa nella loro scia.

Anche le divinità stavano morendo. Il mastodontico Rhonas. L’ingegnoso Kefnet. L’ambiziosa Bontu. La splendida Oketra. Tutte cadute, con il loro stato di divinità strappato dalla loro fiorente mortalità.

Quale divinità può essere una vera divinità, se muore?

Il pensiero più peccaminoso di Nylah si fece strada nella sua mente, spontaneo. Le divinità avevano fallito la loro ordalia. Meritavano la morte.

Si fermò per un istante e poi l’abisso si spalancò. Tutti noi la meritiamo.

L’ultimo pensiero non la spaventò. Al contrario, infiammò una brace dentro di lei, generando un calore che la confortò, in questo momento che segnava la fine del presente e l’inizio del futuro da sempre promesso. La sua città era stata distrutta, le sue divinità erano morte e il suo popolo era stato disperso. Non aveva mai avuto fede come in questo momento.

Noi dobbiamo essere messi alla prova. Senza ordalia non può esistere l’onore. Senza sacrificio non può esistere la gloria. Senza morte non può esistere la vita. La litania dei sacerdoti non aveva mai fatto presa su di lei prima di questo giorno, mentre ora si aggrappava a ogni parola come se fosse una zattera in un fiume impetuoso. Questa era la sua ordalia. Questo orrore era ciò che avrebbe dovuto superare per dimostrare di essere degna.

La parola risuonò nel suo cuore. Degna.

Molti angeli in cielo, intenti a sovrintendere il caos e la violenza senza interferenza, improvvisamente piegarono la testa all'indietro, spalancarono le braccia e le ali, con occhi ardenti di un nauseante bagliore verde, e gridarono tutti insieme "gli Eterni sono giunti!".

Si trovava vicino all’entrata del mausoleo centrale, l’edificio dove erano conservati i morti degni. Gli angeli ripeterono la loro frase e le porte del mausoleo si aprirono.

Una figura terrificante, altra come una divinità, avvolta di oscurità e dalla forma di uno scarabeo uscì attraverso la porta principale. Dietro di lui, come fosse la scia del suo implacabile e oscuro stato di divinità, seguì un esercito.

Erano migliaia, ricoperti da una splendente luce blu metallica. Umani, minotauri, naga e aviani. Tutti imponenti, sebbene fossero solo tendini e ossa inseriti in una luce di lazotep rifinito, più affascinante di qualsiasi gioiello. Nonostante non fossero dotati di muscoli e carne, Nylah riconobbe numerosi campioni del passato e partecipanti alle ultime ordalie. Il minotauro Bakenptah, che aveva attraversato una parete di pietra con la sua ascia per sconfiggere il suo ultimo avversario. L’imponente mago Taweret, che molti ritenevano il mago più potente delle ordalie dell’ultimo decennio. Ovunque volgesse lo sguardo, riconosceva campioni, affiancati da molti altri a lei sconosciuti.

Ognuno di loro aveva in mano un’arma, tagliente e splendente; i campioni morti si muovevano con una grazia e una fluidità che faceva immaginare che nessuno di loro avesse perso l’agilità e la forza che li avevano portati alle loro vittorie.

Erano gli Eterni. I morti degni. Quello era il destino di coloro che sarebbero stati i campioni.

Il cuore di Nylah batté per l’invidia. Quel destino era l’unico che avesse mai desiderato. Tutto ciò che avrebbe mai voluto dalla vita. Lo Scarabeo Divino camminò a grandi passi e la superò, senza accorgersi della sua presenza, ma fu l’esercito dietro di lei a notarla.

I loro occhi brillarono di una fiamma dorata e sui loro volti si dipinsero tetri sorrisi, mentre le loro braccia sollevavano le armi. Nylah vide la leggera luce del crepuscolo scintillare lungo i bordi delle loro lame. Le piombarono addosso e lei gridò di estasi e dal desiderio di diventare parte di loro per sempre.

"Ora credo!", urlò ai compagni che desiderava. Ogni lama affondò in lei come un bacio freddo, un’accoglienza dell’altro lato della gloria, una sensazione pungente che non poteva essere immaginata, ma solo provata. Solo vissuta.

Ora credo, pensò a ogni colpo. La sua stessa stirpe si scagliò su di lei, colpendola più volte. Ora credo.

La sua fede venne ricompensata.

Asenue stava per essere sconfitta.

Non perché loro fossero migliori di lei, nonostante i suoi avversari fossero tra i migliori spadaccini che avesse mai affrontato, campioni che avevano conservato le loro abilità nella morte. Era una vera maestra, la migliore per abilità e addestramento.

Non era perché affrontasse sempre due avversari da sola. Aveva scelto lo stile a due lame proprio per la sua efficacia nel combattere contro più avversari e provava sempre un brivido nel duellare, turbinare e neutralizzare i colpi, con i polsi che erano come estensioni della sua mente e che passavano da uno stato di riposo a uno di tensione tra un combattimento e l’altro, tra un colpo e il successivo, respiro dopo respiro. Ancora un respiro.

No, stava per essere sconfitta in quella sfida perché lei era umana... e loro no.

Le spalle le dolevano. I suoi polmoni erano in difficoltà. Le sue gambe erano stanche. Nella sua mente udiva la voce del suo maestro d’armi, "Voi imbecilli pensate che i muscoli più importanti si trovino nelle vostre braccia, nelle vostre spalle o nella vostra schiena. Sono nelle vostre gambe! Se le vostre gambe si stancano, siete morti!". Le sue gambe erano molto, molto stanche.

Stava per essere sconfitta. Stava per morire.

Sarebbe avvenuto. Ma non in questo momento. Non adesso. Ancora un respiro.

Solo pochi minuti prima, centinaia di creature da incubo con quell'armatura blu e quei volti da scheletro invasero le strade di Naktamun e massacrarono chiunque si erano trovati di fronte. Gli angeli li avevano chiamati "Eterni". Asenue vide i propri compagni, fratelli di messe, amici e semplici conoscenti cadere a causa delle lame di questi Eterni.

Vi voglio bene, in questo momento finale, che lo sappiate oppure no. Voglio bene a tutti voi.

Era questo sentimento che l’aveva spinta a combattere. Alcuni morirono nell’assalto iniziale, altri mentre tentavano di fuggire e altri mentre pregavano le loro divinità. Gli Eterni li uccisero tutti, senza alcuna pietà nelle loro lame.

Lei si era lanciata nella mischia e aveva attratto l’attenzione di due degli Eterni, nonostante un enorme numero di altri le passasse di fianco alla ricerca di un nemico da massacrare. Quei due li avrebbe potuti fermare.

Tranne per il fatto che stava per non riuscire neanche in quell’intento. Non sarebbe caduta sotto le loro lame. Almeno non facilmente. Non sarebbero riusciti a sopraffarla rapidamente, ma erano comunque troppo abili per essere sconfitti. Intorno a lei, altri combattenti si erano uniti alla grande battaglia nelle strade e lei riusciva a udire il suono dei loro respiri affannati, delle loro lame che si scontravano e i gorgoglii delle loro ultime urla.

Nessuno sarebbe arrivato per salvarla.

Non era importante. Ogni istante in cui era ancora in vita rappresentava un’altra persona che non moriva, un’altra persona che poteva vivere un istante in più. Un istante di sopravvivenza, alla ricerca di un luogo dove nascondersi.

Doveva esserci un luogo dove nascondersi. Doveva esserci, altrimenti... soppresse quel pensiero. Ancora un respiro.

Pochi minuti prima, un’eternità prima, il panico aveva minacciato di sopraffarla. Era forte, con grandi capacità ed era abituata a combattere per ore nella stessa giornata... ma non lo aveva mai fatto senza sosta, senza un istante per riprendere fiato, mai contro avversari che erano più veloci di lei, più forti di lei e che non si stancavano mai.

Il panico crebbe nel suo petto finché non scoprì il suo nuovo mantra. La sua respirazione si fece più regolare, il dolore delle spalle divenne distante, il fuoco nei suoi polmoni si raffreddò e le sue gambe continuarono a muoversi e muoversi e muoversi grazie alla sua pura forza interiore.

Ancora un respiro. .

Asenue vide una, poi due poi tre persone attraversare una parete in rovina davanti a lei, indenni. Non ebbe il tempo di augurare loro buona fortuna o di sperare che fossero ancora in vita quando il sole si fosse sollevato di nuovo il giorno dopo. Respirare era doloroso. Muoversi era doloroso. Le sue gambe erano così stanche.

Ancora un respiro. Ancora un respiro. Ancora. Un. Respi...

"Makare! Makare!". Genub urlò freneticamente il nome della sua amata, nel cielo rosso e sempre più scuro. In lontananza, vide gli assassini dall’armatura blu, con le loro forme grottesche che sembravano una presa in giro della loro passata esistenza. Sapeva che affrontarli avrebbe portato alla morte, ma, se non avesse trovato Makare, la morte sarebbe stata un sollievo per lui.

Si erano uniti l’uno con l’altra mesi prima, pronunciando le parole proibite. Un affronto al Dio Faraone, avevano detto i sacerdoti, ma ai due amanti non importava. Nulla, non le ordalie, non i compagni di messe, non il Dio Faraone, nulla era stato più importante del loro amore.

Più tardi nella stessa notte, nel tranquillo boschetto in cui si erano rifugiati, lei si era messa a osservarlo, con quei grandi occhi marroni che rappresentavano l’unica visione che lui desiderava.

"Sarò sempre con te, Genub", gli disse. Lui non sapeva come sarebbe potuto essere possibile, come avrebbero potuto continuare a rimanere insieme ed evitare le ordalie, ma in quel momento non gli interessava.

"Sarò sempre al tuo fianco, Makare". Ogni volta che lo diceva diventava sempre più convinto che potesse essere la verità. Sembrava più vero di qualsiasi altra cosa a Naktamun.

E ora lei non c’era più. Dopo che Oketra era caduta, qualcuno aveva urlato dell'esistenza di un vecchio tempio nei sobborghi della città, che avrebbe offerto loro un rifugio sicuro. Corsero, parte di un grande gruppo, con il cuore di Genub che batteva forte a causa del terrore, mentre stringeva la mano di Makare.

Insieme, pensò e continuò ad aggrapparsi disperatamente a quel pensiero. Se lei fosse stata con lui, tutto sarebbe stato a posto.

Poi qualcuno urlò e gli Eterni corsero da ogni direzione, con spade, asce e falci sollevate. Uno balzo direttamente davanti a Genub e Makare; era una naga, agile e sinuosa, che lanciò una magia di fuoco blu che disintegrò molte persone dietro di loro.

Genub non riusciva a ricordare ciò che era successo dopo quell’istante; ricordava solo di aver corso senza fermarsi, con un terrore che non lasciava spazio a nessun altro pensiero. Quando si era fermato per riprendere fiato, Makare non era di fianco a lui.

L’aveva delusa. L’aveva abbandonata. "Makare!", aveva urlato, girando freneticamente la testa a destra e a sinistra, disperato.

Eccola! Corse attraverso una piazza desolata e devastata, verso quella inconfondibile chioma marrone e quelle vesti color bronzo. Avvicinandosi a lei, vide una folla di Eterni che la circondavano, ma nulla lo avrebbe fermato, neanche una battaglia con tutti loro.

Lei si voltò verso di lui e lui si fermò all’istante. I suoi occhi, quegli occhi di un bellissimo color marrone, erano stati sostituiti da un freddo e brillante blu. Lei lo osservò, senza alcun amore in quello sguardo. Solo in quel momento si accorse dell’enorme ascia nella mano di lei, con chiazze marroni insanguinate sulla lama, e solo dopo si accorse della maga naga dietro di lei, intenta a sussurrare nell’orecchio di Makare.

Lei sollevò l’ascia e Genub sapeva che non poteva essere la realtà, sapeva che sarebbe riuscito a raggiungere la sua mente e a sciogliere qualsiasi magia che la stava tenendo sotto controllo. Sarebbe riuscito a liberarla. Sarebbero vissuti insieme.

"Makare!". L’unica cosa vera di questo mondo era il loro amore. "Makare!". Doveva raggiungere il profondo della sua mente, doveva oltrepassare quella barriera. "Makare!".

Il movimento dell'ascia di lei non rallentò. Quella di lei non fu l’unica lama che penetrò nelle carni di lui, ma fu la prima. Mentre crollava al suolo, l’ultima visione di Genub fu il sorriso sul volto della sua amata.

Alla morte di Oketra, Kawit avrebbe dovuto rinunciare.

La sua divinità era stata presente durante tutta la sua vita. La sua gentilezza, il suo calore e la sua presenza erano stati un invito costante a essere una persona migliore. Conoscere Oketra, venerare Oketra e crogiolarsi nella sua luce era stato continuo e vero come l’esistenza dei soli in cielo... fino al momento in cui la luce di Oketra era stata soffocata, recisa dalla punta velenosa della coda di uno scorpione.

Kawit avrebbe dovuto provare disperazione. Avrebbe dovuto provare panico. Invece, provava solo rabbia. Un’intensa rabbia che la stava consumando, mentre il dubbio e la paura erano stati spazzati via dalla chiarezza rovente.

Si era inginocchiata di fianco a Oketra nel momento esatto in cui la sua linfa vitale era uscita da lei, nel momento in cui gli occhi erano già di un colore leggermente grigio. Non vi era altra vita nella piazza. La maggior parte delle persone era fuggita a causa della minaccia degli Eterni, ma Kawit era rimasta, incurante di tutto tranne che della sua divinità. Un gruppo di dimensioni crescenti di Consacrati si era radunato intorno alla divinità e aveva iniziato a spalmare di olio la sua pelle e ad avvolgerla in bende per prepararla per chissà quale destino avrebbe atteso la divinità caduta.

Nel mezzo di quella morte, nessuno si curò di Kawit, che raccolse una delle frecce di Oketra, lunga come una lancia nelle sue mani. La freccia non era più direttamente intrisa della luce divina, ma Kawit riusciva a percepire una vibrante energia al suo interno, un’eco della presenza della sua divinità.

Lei era una devota guerriera di Oketra, fiera e potente, e sarebbe andata alla ricerca della vendetta.

Un roboante suono crebbe dietro di lei; si voltò e vide un minotauro Eterno che correva verso di lei a piena velocità, con l’ascia sollevata. Kawit ebbe solo il tempo di sollevare e stringere la sua lancia appena raccolta.

Il minotauro andò a sbattere contro la punta della lancia e Kawit sentì un’ondata di potere. Ci fu un lampo di luce bianca e il minotauro venne disintegrato; la sua armatura di lazotep blu si trasformò in polvere per il potere di Oketra.

Si rialzò, ansimante, e la sua rabbia continuò a crescere; non sarebbe stata saziata fino al momento in cui ogni Eterno fosse stato ridotto in polvere.

Poi lo vide.

La prima parte che vide furono le corna, la lunga e ricurva forma così familiare. Quelle corna erano ovunque nella sua città e lei sapeva che esisteva un solo essere a cui appartenevano.

Era il Dio Faraone in persona.

Era enorme, più grande di qualsiasi divinità. Uno strano uovo dorato fluttuava tra le sue corna serpentine. Era un drago. La sua mente barcollò per un istante e lei si chiese se fosse un intruso, una qualche forza del male che aveva preso il posto del Dio Faraone. Era forse l’impostore che aveva causato la distruzione della sua città e la trasformazione in sangue del Luxa? Era forse l’impostore che aveva causato la morte della sua divinità, della sua cara e splendida divinità?

La chiarezza della sua rabbia le presentò una risposta, che la colpì con una forza tale da farle comprendere immediatamente che era la verità.

Questo drago non è un impostore. Questo drago è il nostro Dio Faraone. Questo è l’essere che abbiamo servito per tutta la nostra vita. Il suo stomaco si contorse e la sua testa divenne febbrilmente calda.

Urlò la sua frase di sfida ai cieli oscuri, sollevando la lancia contro il Dio Faraone, no, senza più un titolo, contro il drago. "Ti ucciderò!". Scattò verso di lui.

Il suo urlo aveva attirato l’attenzione di un grande gruppo di Eterni che si trovavano nelle vicinanze, che corsero, strisciarono e scattarono per intercettarla.

Oketra, proteggimi. Dammi la forza. Kawit non sapeva a chi stesse rivolgendo le sue preghiere, ma ciò non ridusse la sicurezza di sé che Oketra le avrebbe donato.

E Oketra ci riuscì. Uno scudo brillante e pulsante si formò intorno a Kawit, tangibile espressione del potere e dell’amore di Oketra. Gli Eterni si scontrarono con lo scudo e rimbalzarono, lasciando Kawit intatta, nella sua corsa verso il drago.

Oketra, aiutami a colpire. Kawit scagliò in aria la lancia, che saettò con velocità e precisione che sapeva non sarebbe mai riuscita a raggiungere da sola. Splendette in aria, come se scagliata direttamente dall'arco di Oketra, e si diresse verso il lato del collo del drago, che non si era accorto di nulla.

Gli Eterni continuarono ad aggredire da ogni lato lo scudo di forza che la circondava, ma senza successo. L’amore di Oketra la stava proteggendo. Oggi avrebbe ottenuto giustizia.

All’ultimo istante, il drago volse lo sguardo verso la lancia e il proiettile si arrestò a mezz’aria, senza più né velocità né forza. La lancia cadde inutile a terra, spezzandosi in due per l’impatto con la ruvida pietra.

Il drago osservò per un istante la lancia spezzata e poi parlò, con una voce come un tuono nella tempesta, "In un mondo diverso, figlia mia, in un momento diverso...", il drago fece una pausa, "saresti potuta essere utile". Nel suo sguardo non vi era né odio né rabbia, bensì un secco stupore. Si voltò e se ne andò, dimenticandosi della sua esistenza.

Quel momento di noncuranza ottenne il risultato che un’ondata di furore non avrebbe potuto ottenere. Lei crollò sotto il peso dell’essere stata ignorata, sorpresa di quanta parte della sua vita lui fosse riuscito a distruggere senza neanche un’emozione. Sarebbe stato più compassionevole, comprese, se lui le avesse strappato la vita con un gesto rabbioso.

Si inginocchiò, quasi inerme, e il suo scudo iniziò a tremolare. Dopo poco, svanì.

Gli Eterni le furono addosso e Kawit non ebbe neanche la forza di gridare.

Amenakhte udì un rumore di passi, leggero, non il duro battito del metallo sulla pietra e pensò che sarebbe stato abbastanza al sicuro per parlare. In pochi minuti non sarebbe stato in grado di dire più nulla.

"Aiuto...". Il sangue sgocciolava dalle sue labbra e la parola suonò come un gorgoglio appena comprensibile. Pensò che sarebbe stato più facile morire, ma si ricordò del bambino sotto di lui, quel ragazzino coraggioso e sveglio che anche in quel momento rimaneva in silenzio, attento a non attirare altri assassini.

Nonostante il sangue che gli riempiva la bocca, si sentì assetato e comprese quanto un sorso d’acqua lo avrebbe fatto sentir meglio. Tutto andrà bene, ho solo bisogno di un sorso d’acqua, pensò.

"Aiuto", ripeté in modo chiaro e udibile. Ebbe bisogno di più forza per pronunciare quella parola che per qualsiasi altra azione avesse compiuto quel giorno, nonostante avesse già dato prova di forza per un’intera vita in quell’ultima ora da solo.

Qualcuno lo fece girare e ansimò sonoramente. Osservò il suo soccorritore, ma la vista era confusa. Tutto ciò che riuscì a comprendere era che si trattava di un umano, non uno dell’esercito di Eterni che riempiva le strade e uccideva tutti quelli che incontrava.

"Ti prego", tossì e sputò, facendo uscire altro sangue. "Ti prego, salva il bambino".

Aveva cercato di fuggire. Come tutti gli altri. Le locuste, l‘Hekma distrutta, la morte delle divinità. Era troppo. Il loro mondo, tutto ciò che pensavano del loro mondo, era stato strappato da loro in un solo giorno.

Si erano messi a correre. Poi avevano scoperto il vero orrore delle Ere, il vero significato del ritorno del Dio Faraone. Gli Eterni erano tra loro, tanti quante le locuste, letali quanto lo Scorpione Divino e implacabili quanto doveva essere anche il Dio Faraone. Le loro lame saettavano, le loro magie si scatenavano e le persone morivano.

Amenakhte era imponente e aveva le larghe e possenti spalle e il petto di un combattente. Ma non era esperto nel combattimento e non era mai stato coraggioso. Gli Eterni uccidevano chi fuggiva e uccidevano anche chi rimaneva; Amenakhte era stato sopraffatto dalla paura, fino al momento in cui aveva visto quel bambino piangere nel mezzo della strada.

Non era suo figlio. Lo sapeva. Aveva incontrato suo figlio una volta, alcuni anni prima, ma quegli incontri fortuiti venivano di solito ignorati e sicuramente mai espressi. Nonostante ciò, aveva visto le ampie spalle del bambino e la folta chioma nera così simili alle sue... e aveva capito. Questo è mio figlio. Quel giorno, il suo cuore si era riempito di orgoglio, ma non poteva esprimerlo con nessuno, neanche con la madre di quel bambino, che incontrava raramente.

Il bambino che aveva visto singhiozzare nella strada non aveva la stessa folta chioma nera e neanche ampie e forti spalle. Ma qualcosa aveva toccato il cuore di Amenakhte, proprio come era capitato il giorno in cui aveva trovato suo figlio. Gli Eterni avevano iniziato ad arrivare da entrambi i lati della strada, con lame luccicanti e i loro piedi ricoperti di metallo che batteva severo contro la pietra.

Era balzato verso il bambino, per raccoglierlo e portarlo via, ma gli Eterni erano ovunque, con le lame che si abbattevano, e tutto ciò che Amenakhte ebbe il tempo di fare fu mettersi tra le lame e il bambino, coprendolo e proteggendolo dai colpi.

Sono il tuo scudo, ragazzo. .

Sentì ogni affondo, ogni taglio, ma sapeva che le sue spalle erano larghe. Sapeva di essere forte. A ogni colpo pensò al bambino che stava proteggendo e la sua unica speranza era tenerlo in vita.

Dopo un istante che sembrò non finire mai, la violenza cessò e i passi severi si diressero altrove. L’uomo non osò muoversi, per timore che gli Eterni tornassero, ma, dopo alcuni momenti comprese che non sarebbe riuscito a muoversi neanche se lo avesse voluto. Il bambino era rimasto in silenzio durante tutto quel periodo. Anche adesso, non riusciva a percepire alcun movimento. Così coraggioso. Così ingegnoso. Ti salverò.

Ora la donna era lì con loro e Amenakhte avrebbe potuto darle il bambino. E poi lui sarebbe potuto morire.

Lei non disse nulla, si inginocchiò e gli resse una mano. Le mani di lei erano così calde, così delicate. Davano sollievo quasi quanto un sorso d’acqua. Alzò lo sguardo e, nonostante non riuscisse a vederla bene, sapeva che era bellissima.

"Tu... salverai questo bambino?". Le parole erano stranamente più facili da pronunciare e uscirono dalle sue labbra come se fossero sangue. Lei annuì e Amenakhte poté vedere, anche attraverso i suoi occhi annebbiati, che lei stava piangendo.

Non piangere per me, avrebbe voluto dire. Occupati del bambino, le sue labbra si rifiutarono di muoversi.

Lei si avvicinò e sussurrò delicatamente nel suo orecchio. "Il bambino è... lo farò", singhiozzò. "Io... salverò il bambino".

La sua voce era come le sue mani, fluida e calda, come la prima goccia del dorato miele che si porta alle labbra. La sua vista svanì e lui cercò di dissetarsi nel suo volto, nel suo splendido volto, l’ultimo frammento di sole prima di farsi cullare dalla notte, vasta, oscura ed eterna.

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