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Children of the Nameless/Prologo è il prologo di Children of the Nameless.

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Esistevano due tipi di oscurità, e Tacenda temeva il secondo tipo molto più del primo.

La prima oscurità era un’oscurità comune. L’oscurità delle ombre, quella che la luce fatica a raggiungere. L’oscurità dell’anta socchiusa di un armadio, o quella del vecchio capanno vicino alla foresta. Questa prima oscurità era l’oscurità del tramonto, che filtrava all’interno delle case man mano che la notte avanzava, come un ospite indesiderato che si è costretti ad accogliere.

La prima oscurità aveva i suoi pericoli, soprattutto in questa terra, dove le ombre respiravano e cose oscure ululavano nella notte. Ma era la seconda oscurità, quella che scendeva su Tacenda ogni mattina, quella che lei temeva veramente. La sua cecità era legata strettamente al sorgere del sole: appena le sue prime luci apparivano, la sua vista sarebbe svanita. La seconda oscurità l’avrebbe reclamata: un colore nero puro ed inesorabile. Nonostante le rassicurazioni dei suoi genitori e dei sacerdoti, lei sapeva che qualcosa di terribile la osservava da quell’oscurità.

Anche la sua sorella gemella, Willia, lo capiva. La maledizione di Willia era opposta rispetto a quella di Tacenda: Willia riusciva a vedere durante il giorno, ma veniva reclamata dalla seconda oscurità ogni notte. Non c’è mai stato un momento nel quale entrambe potevano vedere contemporaneamente. E quindi, nonostante fossero gemelle, le ragazze non hanno mai avuto la possibilità di guardarsi negli occhi.

Mentre cresceva, Tacenda cercò di superare la sua paura per la seconda oscurità imparando a comporre musica. Diceva a sé stessa che, perlomeno, poteva ancora udire i suoni. Tant’è che, mentre non poteva vedere, percepiva di poter udire meglio la musica naturale della terra. Lo scricchiolio dei sassolini sotto un piede che compie un passo. I vivaci fremiti di una risata quando un bambino passava vicino al suo posto nell’esatto centro del villaggio. A volte, Tacenda riusciva perfino a percepire la distensione degli antichi alberi mentre crescevano, come il suono di una corda che si torceva, accompagnato dal flebile sospiro delle loro foglie in caduta.

Desiderava di poter vedere il sole, almeno una volta. Un’enorme e fiammeggiante palla di fuoco nel cielo, più splendente perfino della luna? Riusciva a percepire il suo intenso calore sulla pelle, quindi sapeva che esisteva davvero, ma come si sentivano tutti gli altri, mentre vivevano le loro vite, a vedere quell’incredibile falò nel cielo che incombeva su di loro?

Gli abitanti del villaggio vennero a sapere delle maledizioni opposte delle sorelle e le considerarono marchiate. La gente sussurrava che fosse il tocco del Pantano su di loro. Era una cosa positiva: voleva dire che le gemelle erano state reclamate, benedette.

Tacenda ebbe qualche problema a vederlo come una benedizione fino al giorno in cui scoprì la sua vera canzone. Quand’era ancora una bambina, la gente del villaggio le comprò un tamburo da un mercante itinerante, così che potesse cantare insieme a loro mentre lavoravano nei campi di salici polverosi. Dicevano che l’oscurità tra gli alberi sembrava ritirarsi quando lei cantava, ed affermavano che il sole splendesse di più. In uno di quei giorni, Tacenda scoprì un potere dentro di lei, ed iniziò a cantare una bellissima e scaldante canzone di gioia. In qualche modo, lei sapeva che proveniva dal Pantano. Un dono, insieme alla sua maledizione di cecità.

Willia sussurrò di percepire anch’essa un potere dentro di lei. Una strana ed incredibile forza. Quando combatteva con la spada, nonostante avesse solo dodici anni, riusciva a tenere testa perfino a Barl, il fabbro.

Willia è sempre stata quella impetuosa. Durante le ore di luce, perlomeno. Di notte, quando la seconda oscurità la coglieva, tremava di una paura che Tacenda conosceva molto bene. Durante quelle lunghe notti, Tacenda cantava per sua sorella, una ragazza che era terrorizzata senza motivo dalla paura che la luce non sarebbe più tornata a lei.

Fu in una di quelle notti, poco dopo il loro tredicesimo compleanno, che Tacenda scoprì un’altra canzone. Arrivò a lei mentre un essere della foresta artigliava la porta, ululando e delirando. Certe volte le bestie uscivano dalla foresta durante la notte, irrompevano nelle case e si prendevano chi ci abitava. Era il prezzo da pagare per poter vivere negli Accessi: la terra richiedeva una tassa di sangue. Non c’era altro da fare se non sbarrare la porta e pregare il Pantano o l’Angelo per la salvezza, in base alla preferenza.

Ma quella notte, sentendo il panico di sua sorella e i pianti dei suoi genitori, Tacenda aveva camminato verso la bestia che aveva fatto irruzione. Lei aveva udito la musica nelle crepe e nelle schegge della porta, nella brezza che faceva ondeggiare i rami degli alberi, nel proprio battito cardiaco che rimbombava nelle sue orecchie. Aprì la bocca e cantò qualcosa di nuovo. Una canzone che fece urlare di dolore la bestia, e che la fece fuggire via. Una canzone di sfida, una canzone di difesa, una canzone di protezione.

La notte successiva, il villaggio le chiese di cantare la sua canzone nell’oscurità. La sua musica sembrava bloccare il bosco. Da quel giorno in avanti, nulla arrivò dalla foresta. Il villaggio, un tempo il più piccolo dei tre presenti negli Accessi, iniziò a prosperare quando le persone vennero a sapere delle sue protettrici gemelle: la forte guerriera che si addestrava durante il giorno e la tranquilla cantante che calmava la notte.

Per due anni il villaggio conobbe una pace straordinaria. Nessuna persona rapita durante la notte. Nessun ululato di bestie alla luna. Il Pantano aveva inviato delle guardiane per proteggere il suo popolo. Nessuno si era quasi reso conto che un nuovo signore, che si faceva chiamare l’Uomo del Maniero, aveva spodestato il precedente. Anzi, questo nuovo Uomo del Maniero sembrava essere molto riservato: un passo avanti rispetto al vecchio signore. O così si pensava.

Ma poi, appena dopo il quindicesimo compleanno delle due gemelle, ogni cosa andò a rotoli.

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